Mio padre Alcide. Intervista a Maria Romana De Gasperi

di Riccardo Michelucci

Quando Maria Romana De Gasperi (9 marzo 1923 – 30 marzo 2022) ci accoglie per la prima volta nella sua casa di Roma per iniziare questa lunga conversazione, l’antica scrivania di suo padre è stata portata via soltanto da pochi giorni. L’hanno imballata e caricata su un furgone diretto a Trento, dove sarà esposta in una mostra dedicata al grande statista. Ci confessa che le sembra ancora di sentire il ticchettio di quel vecchio strumento di lavoro la macchina da scrivere sul quale suo padre scrisse per tanti anni. Sostiene di aver sentito come un distacco dalla parte più giovane della sua vita, vedendo portar via quel mobile. Forse sarà perché anche lei ha trascorso giornate intere su quella scrivania in legno antico, mentre i suoi figli crescevano, raccogliendo il materiale e le testimonianze che le sarebbero servite per scrivere la biografia di un uomo che ha sempre creduto nella politica e nell’educazione di un popolo alla libertà, alla giustizia e all’impegno per il bene comune.

Con una gentilezza e un’eleganza di altri tempi ci fa accomodare in uno studio sobrio e silenzioso, adornato da un grande affresco che ritrae Alcide De Gasperi e da una libreria piena di volumi sulla storia dell’Italia contemporanea.

 

È inevitabile chiederle cosa vuol dire essere la figlia di Alcide De Gasperi, peraltro quella più vicina a lui, che ha avuto modo di lavorare a lungo al suo fianco. Cosa ha significato, soprattutto dopo la sua morte, raccogliere la sua eredità politica, spirituale e umana?

Mio padre era la mia vita. Sono sempre stata molto legata a lui, fin da ragazzina. A tavola avevo il posto accanto a lui. Mia madre sedeva alla sua destra, io alla sua sinistra, qualunque cosa dicesse io gli davo ragione. Era un uomo affettuoso e attento a tutte e quattro le sue figlie, anche se c’era molta differenza d’età tra me e Lucia e le altre due sorelle, Cecilia e Paola. Io ero la più grande delle quattro: con mia sorella Lucia siamo nate in un periodo ancora felice della vita di mio padre, prima che i fascisti lo mettessero in prigione. Con le altre due c’erano una decina d’anni di differenza. Nostro padre ci ha comunque amate tutte nello stesso modo. Quando doveva sgridarci non alzava mai la voce, ma si fermava a spiegarci con estrema pazienza, cercava sempre di farci ragionare. In famiglia era dolcissimo. Quando combinavamo qualcosa, mia madre ci diceva: «Lo dico a papà!». E noi eravamo contente perché sapevamo che non ci avrebbe fatto nulla.

Ricordo che quando ero bambina essere la figlia di Alcide De Gasperi non significava niente di particolare, perché lui aveva deciso di non raccontarci niente della sua vita di prima, la politica, il carcere e tutto il resto. Non sapevamo quasi niente, perché durante il periodo fascista era molto facile che le notizie trapelassero al di fuori delle famiglie e si potessero avere parecchie seccature da parte della polizia. Quando divenni un po’ più grande mio padre cominciò a chiedermi di portare dei pacchi di lettere a un signore che abitava al piano di sotto. Era un pacco abbastanza pesante e io dalla scala di servizio della nostra casa di Roma, in via Bonifacio VIII dove abitavamo, lo portavo di sotto. Poi, qualche giorno dopo, mio padre mi chiedeva di andarlo a riprendere. In seguito capii che ciò avveniva quando c’era qualche manifestazione del fascismo o visite di ospiti stranieri che il Duce riceveva in città. In quelle occasioni i controlli erano durissimi e spesso qualche oppositore del regime veniva messo in prigione per alcuni giorni o era comunque tenuto sotto controllo dalla polizia. A mio padre non è mai successo, ma quelle carte che io portavo via da casa contenevano la sua storia, quella vissuta durante il periodo austro-ungarico. Di fatto quella fu la mia istruzione politica. Anche se mio padre non mi raccontava niente, rielaborai e compresi tutto più tardi, quando facevo il ginnasio. Ricordo che una di quelle volte che portavo il pacco al piano di sotto si ruppe la carta che lo avvolgeva e vidi scritto sopra De Gasperi. Allora incominciai a fare qualche domanda a mio padre, che mi spiegò alcune cose, il minimo che potevo sapere senza mettere a rischio la sua e la nostra sicurezza. In un certo senso mio padre mi educò a diventare la sua segretaria. Mi mandò a imparare la stenografia, la dattilografia, l’inglese e il francese. Non a caso, subito dopo la fine della guerra, entrai nella sua segreteria.

Quando ha cominciato, da bambina, a capire che era un uomo così importante?

Direi gli ultimi quattro anni prima della Liberazione, quindi intorno al 1941. Incominciai a vedere le persone che venivano a trovarlo, non conoscevo i loro nomi, ma notai che arrivavano di sera, con grande circospezione, e quindi noi ragazzine – io e mia sorella Lucia – andavamo di nascosto a curiosare attraverso la porta per vedere chi c’era. Erano tutti antifascisti, non conoscevamo i loro nomi, ma a ognuno di loro avevamo dato un soprannome. Poi, a poco a poco, iniziammo ad apprendere tutto. Ogni cosa avveniva con grande attenzione e prudenza. Non si usavano mai i nomi veri. Oggi sembra assurdo ma anche attraverso i telefoni si dicevano nomi finti. Per fortuna Roma, essendo “città aperta”, non subì mai bombardamenti, né conobbe situazioni molto gravi. Mio padre si nascose prima in Laterano, poi in una stanza che gli era stata messa a disposizione dal cardinale Celso Costantini, in piazza di Spagna. Era una stanza sopra ai tetti, dove io andavo due o tre volte la settimana a prendere i suoi articoli per il giornale clandestino e poi li portavo dove mi diceva lui. Andavo in bicicletta, mettevo dei fiori sopra le carte per non attirare troppo l’attenzione. Ero una ragazza, quindi non davo molto nell’occhio e nessuno si curava di me. Le cose ovviamente erano destinate a cambiare dopo la Liberazione, quando iniziai a stargli più vicino ed entrai nel gruppo ristretto dei suoi collaboratori.

Da cosa nasceva questo rapporto simbiotico che aveva con lui?

Nella nostra famiglia eravamo tutte donne, mio padre era l’unico uomo di casa. Stava in cima al tavolo da pranzo ed eravamo tutte pronte ad aiutarlo quando si alzava, c’era chi gli spazzolava il cappello prima di uscire, chi gli apriva la porta di casa quando usciva. Eravamo state abituate così, lui era molto affettuoso ma in un modo estremamente misurato, come in genere facevano una volta i trentini. Lui aveva avuto anche un’educazione austriaca, quindi non era uno che abbracciava spesso o si produceva in grandi effusioni, come facciamo spesso noi italiani. Quando ci faceva una carezza per noi era un fatto memorabile. Mia sorella Lucia, che prese i voti ed entrò a far parte delle Suore dell’Assunzione, ha sempre avuto con nostro padre un rapporto spirituale molto forte, e lui la consultava spesso.

Durante la guerra lavorava in Vaticano tutte le mattine e i pomeriggi, la sera si dedicava invece alle traduzioni dal tedesco. Lavorava sempre. Stando in Vaticano, aveva la fortuna di poter ricevere notizie dall’estero, dai giornali di tutto il mondo. Lì si trovavano, ma non appena si usciva dalle mura vaticane trovare giornali inglesi o francesi era impossibile. Anche in questo senso godeva di una posizione privilegiata, anche se ciò non corrispondeva a una situazione economica importante.

© Archivio Della Porta
© Archivio Della Porta

Chi era Alcide De Gasperi?

Un uomo che credeva nella politica fondata su certi principi, ma anche un intellettuale. In carcere era solito scrivere lettere in latino. Quando era presidente del Consiglio, la sera si rilassava leggendo le egloghe di Virgilio in latino e l’Anabasi di Senofonte in greco. Durante il fascismo lavorava di mattina in Vaticano come bibliotecario, nel pomeriggio traduceva testi in tedesco per arrotondare. Dettava le frasi ad alta voce mentre nostra mamma li batteva a macchina. Noi bambine dovevamo stare in silenzio e non fare rumore per non disturbarli.

A proposito del latino, tra i tanti aneddoti relativi al rapporto con suo padre, nei primi anni della sua gioventù ce n’è uno particolarmente significativo proprio legato allo studio del latino. Ce lo può raccontare?

All’epoca il latino si studiava già dalla prima media, a dieci anni. Un giorno lui mi sentì mentre ripetevo la declinazione di rosa, rosae e mi disse: «Ma come, studi latino? Allora sei proprio diventata grande». Fin da bambine lui aveva sempre cercato di educarci a essere più grandi della nostra età, nei nostri interessi culturali. Allora non esisteva la televisione, si sentivano le commedie alla radio ma lui preferì iniziarci alla letteratura italiana o greca. Quando io e mia sorella avevamo otto anni, mio padre ci aveva già letto l’Inferno di Dante da un enorme libro illustrato. Ce lo leggeva un pezzo alla volta e ce lo spiegava. Poi fece lo stesso anche con l’Iliade e con l’Odissea. Era così interessante ascoltarlo mentre ci raccontava e ci spiegava queste storie dell’antichità.

Alcide De Gasperi trascorse il Natale del 1927 nel carcere di Regina Coeli, per essersi opposto al regime fascista. Lei era molto piccola e fu mandata a stare dai suoi nonni. Cosa ricorda di quel periodo?

Ricordo un suo regalo. Era una storia illustrata per Natale che realizzò lui stesso in prigione, ritagliando alcune pagine da una rivista inglese, il National Geographic Magazine. C’erano fotografie della Palestina dell’epoca, quindi degli anni Venti. Erano immagini molto interessanti perché ritraevano quella terra ancora incontaminata, com’era ai tempi in cui visse Gesù Cristo. I prati fioriti della Galilea, i pastori con le pecore, sullo sfondo il mare di Tiberiade. Sotto ogni illustrazione papà aveva tradotto le parole inglesi in italiano e anche in latino per tenere presenti quelle dei salmi, infine aveva inserito un suo commento. Io ero molto piccola, avevo appena quattro anni, non sapevo neanche che fosse in carcere, mi avevano detto che era in una città lontana, per lavoro. All’epoca non capii granché di quello che mi scrisse, ma credo che in un certo senso sia stato un modo per darmi le prime basi del catechismo. Voleva darmi la possibilità d’immaginare Gesù. Conservo ancora quell’album straordinario come uno dei ricordi più cari che ho di lui. A volte mi incanto ancora a rileggere quello che scrisse per me: «Sono passati ormai centinaia e migliaia di anni che una sera d’inverno, fredda come questa sera, la Madonna e san Giuseppe, dopo aver camminato tutta la giornata, domandavano al pastore che stava avanti alla grotta, di poter entrare per riposarsi e difendersi dal vento. Poco lontano altri pastori vegliavano sulle loro pecorelle. A un tratto un gran lampo, mandato da Dio, faceva trasalire uomini e animali e una voce dall’alto annunciava che nella grotta era nato Gesù bambino. I pastori accorsi si inginocchiarono e poi si sparsero, pieni di gioia, nelle campagne a raccontare che era nato il Salvatore, il quale avrebbe voluto tanto bene alla povera gente e avrebbe portato la pace al cuore degli uomini buoni… e poi il Bambino crebbe e diventò grande in una casetta della città di Nazareth, giocando con i contadinelli e i figli dei pastori. Venuto il tempo di insegnare Egli scendeva nei campi e saliva le colline che dominavano il mare di Galilea, tutti allora correvano attorno a lui per ascoltarlo mentre diceva: come il pastore che raccoglie le pecore disperse, così io verrò a visitare chi si è smarrito nella disgrazia e lo libererò e lo chiamerò attorno a me… Sono passati centinaia e migliaia di anni e Gesù ripete sempre il suo invito: noi lo seguiremo senza paura, anche se la valle fosse oscura, perché Egli è la via, la verità e la vita».

Cos’è la fede per lei?

La fede è qualcosa che ti infonde la famiglia. Iniziai a rendermene conto già da bambina. Quando io e le mie sorelle eravamo piccole nostro padre ci portava alla messa ogni domenica a San Pietro. Poi ci accompagnava sempre in un una pasticceria molto nota per comprare sette paste: una per ogni membro della famiglia, non una di più. Le portavamo a casa per mangiarle dopo pranzo. Era un modo per educarci all’attesa, al desiderio. Dopo di me nacque mia sorella Lucia, poi Cecilia. Mio padre avrebbe voluto avere anche un maschio per chiamarlo Paolo: lui era molto devoto a san Paolo. Invece poi arrivò un’altra bambina, che venne chiamata Paola. Allora ci siamo trasferiti in una casa più grande in via Bonifacio VIII, che adesso si chiama via De Gasperi, poi arrivò a stare con noi una sua sorella; morto mio nonno lei era rimasta sola e venne da Trento a stare con noi. In casa c’era anche nostra zia Marcella, la sorella di mio padre, che non si è mai sposata. A Natale oltre al presepe si faceva l’albero: era un retaggio austroungarico, perché prima della guerra a Roma l’albero di Natale non lo faceva quasi nessuno.

In che modo la fede di Alcide De Gasperi ha influenzato la sua?

Quando eravamo bambine nostro padre ci leggeva spesso qualche libro, ad esempio quando io e Lucia avevamo sugli undici-dodici anni ricordo che iniziò a leggerci la Divina Commedia – aveva un libro antico molto bello –, era un pretesto per spiegarci la fede e la religione. E riusciva molto bene a farcela sentire vicino. La domenica, quando poteva, ci portava anche a visitare le antiche basiliche e le chiese più piccole di Roma, di cui lui conosceva sempre la storia. Amava molto la storia e aveva grande memoria della storia greca e latina. All’epoca non esisteva ancora la televisione e la sera, dopo cena, si sedeva accanto a noi e ci raccontava i principali fatti della storia antica. Quegli insegnamenti avrebbero segnato il resto della nostra vita.

Tempo fa lei ha spiegato che la spiritualità e la politica furono due angoli visuali diversi e complementari che delineavano la complessa e ricchissima figura di Alcide De Gasperi. La ricerca di Dio, l’anelito verso il trascendente, le domande ultime sul senso della vita, così come l’amore verso sua madre, fanno parte di un’unica cornice umana, da cui non si può scindere la teoria e la prassi, l’assunzione di responsabilità verso il Paese e la faticosa esperienza di governo. Come descriverebbe la fede di suo padre?

Era una fede naturale, priva di alcun dubbio o incertezza. Nelle sue parole, come pure nei suoi scritti, non esiste traccia di dubbio. Neanche nelle lettere che scrisse quando era in carcere, anche nel momento in cui sperò invano di essere liberato. Lo portarono al Palazzo di giustizia e lo misero in fila insieme a un gruppo di criminali, era quasi certo di tornare in libertà e invece si trovò di nuovo rinchiuso a Regina Coeli. Di quel periodo ho trovato una lettera, forse è l’unica in cui racconta di essersi messo a piangere per la disperazione, perché non sapeva come avrebbe fatto ad aiutare la famiglia, restando in carcere. Poi però, scrivendo a mia madre, la rassicurava dicendole che il Signore non si sarebbe dimenticato di lei e l’avrebbe aiutata. Quelle lettere dal carcere sono molto toccanti, perché cerca di far accettare alla sua famiglia una condanna che per lui fu molto pesante. Non voleva in alcun modo che la sua famiglia ne soffrisse ed era sempre lui fare coraggio a noi. Ci scriveva: «Miei cari, dormite in pace. Io sono presente».

Ha altri ricordi di suo padre rinchiuso nelle carceri fasciste?

Il primo vero ricordo che ho di lui è quando tornò a casa. Non sapevo che fosse stato in prigione, mi avevano detto che era andato in una città lontana per lavoro. Mia sorella Lucia si rifiutò di abbracciarlo. «Tu non sei il mio papà, il mio papà è quello lì», gli disse indicando una sua fotografia. Ci raccontò anche che un giorno una guardia carceraria l’aveva scoperto dallo spioncino mentre scriveva sul muro della cella con uno spillo. Era una frase del Vangelo, «Beati qui lugent quoniam ipsi consolabuntur» (Beati coloro che piangono, perché saranno consolati).

Era un tempo in cui si poteva scrivere in latino sul muro di un carcere, con il pensiero che il detenuto che sarebbe venuto dopo ne avrebbe compreso il senso, letterale e morale. E comunque la guardia chiamò il suo capo, che costrinse mio padre a cancellare la scritta con un mestolo di legno, ma rinunciò a punirlo. Quando poi si ammalò, fu portato in ospedale, sempre con la porta aperta e la guardia di fuori. La polizia fascista l’aveva catturato mentre era sul treno diretto a Trieste. Voleva allontanarsi da Roma, perché la capitale era diventata per lui un luogo troppo pericoloso. Pensava che fosse meglio andare a vivere in una città più piccola. Fu una scelta imposta dalle circostanze, perché lui era un uomo abituato ad affrontare i problemi, non a scappare. Pensava che l’avrebbero liberato, in fondo era un deputato che criticava il governo. Invece lo portarono in catene a Regina Coeli e lo condannarono a quattro anni di carcere.

Lei ha fatto le scuole durante il Ventennio. Le ha creato problemi il fatto di essere la figlia di un fiero antifascista come suo padre?

Quando dovetti iscrivermi alla prima media, a undici anni, mia madre andò a parlare con i presidi di alcune scuole pubbliche di Roma dicendo che le sue figlie avrebbero frequentato volentieri le classi medie, ma non avrebbero preso la tessera di Piccole italiane del Partito fascista. Mio padre si rifiutava categoricamente di farcela prendere. Fu così che tutte le scuole pubbliche si rifiutarono di ammetterci, e ci obbligarono a frequentare solo gli istituti privati religiosi. Per un anno io e mia sorella Lucia studiammo dalle madri dell’istituto di Saint Joseph de l’Apparition, e poi per tutto il ginnasio e il liceo presso le madri di Nevers, nella scuola che si trovava sul lungotevere di fronte all’isola Tiberina. Era un luogo assai interessante per una ragazza curiosa come me. A causa della mia alta statura avevo il mio banco vicino alla finestra dell’ultima fila. Stare in quell’istituto ci permise di studiare, ma ci fece anche sentire diverse dalle altre ragazze e ci limitò nelle amicizie. Alcune delle nostre compagne di scuola erano di origine straniera, figlie di diplomatici, altre di origine ebraica. Non c’era tra noi nessuna differenza, le stesse suore non chiedevano di frequentare l’ora di religione, né di avere la tessera del fascismo.

Per noi, figlie di un ex deputato perseguitato dal fascismo, l’istituto delle suore francesi era un rifugio, proprio come per queste ragazze ebree. Mentre le ragazze delle scuole pubbliche uscivano il sabato con la divisa del partito, noi portavamo la divisa della scuola: camicetta azzurra e gonna blu. Un giorno però venne un’ispezione del Ministero che obbligava a indossare l’uniforme di piccole italiane anche per gli esami interni alla scuola. Ricordo che in casa nostra fu considerato un grave abuso. Mio padre non voleva assolutamente farci acquistare quella divisa e quando gli chiesi come avrei potuto continuare la scuola, lui mi rispose semplicemente che avrei interrotto gli studi. Quella risposta dura, secca, inequivocabile era la conseguenza dei grandi sacrifici che il regime gli aveva imposto, togliendogli la libertà, il lavoro, i contatti sociali e limitando duramente la sua carriera politica. Fu mia mamma a risolvere l’impasse facendomi fare una gonna nera a pieghe e una camicetta bianca che poteva assomigliare alla divisa richiesta. Ebbi quindi la possibilità di sostenere gli esami finali, ma quando tornai a casa l’abito venne fatto a pezzi, quasi per tacitare il nostro rimorso di avere disobbedito a nostro padre. All’epoca noi non ci eravamo rese conto della tragedia che si stava consumando in quei mesi, proprio accanto a noi.

Già. La vostra scuola si trovava vicino alla sinagoga, nel cuore ebraico di Roma. Molte vostre compagne avevano un cognome ebraico e un brutto giorno smisero di venire a lezione.

La «questione ebraica», come veniva chiamata allora, non era ancora sul tavolo di Mussolini e un giorno ebbi la tentazione di andare a vedere come fosse quella strana e silenziosa chiesa vicina alla mia scuola, dove le nostre suore dicevano che non era necessario andare. Quando entrai ebbi un’impressione di freddo, ricordo che c’erano poche lampade accese, che moltiplicavano il senso di vuoto. Uscii in fretta, come se avessi compiuto un errore difficile da cancellare. Nostro padre, saputa la storia, incominciò a leggere per noi parte della Bibbia e a raccontarci di come quella storia facesse parte del nostro cammino religioso. Molti anni dopo, quando frequentavo l’ultimo anno di liceo, notai una mattina che le mie compagne ebree non erano più ai loro banchi. Quando chiedemmo alle suore dov’erano andate ci risposero che erano partite. Noi ragazze leggevamo poco i giornali, e nelle famiglie non si parlava della deportazione degli ebrei. Nostro padre, che nell’insegnarci come vivere non usava la critica quanto il racconto della verità, un giorno aprì la Bibbia e ci disse che cristiani ed ebrei avevano lo stesso Dio. Non ci fu mai detto dov’erano andate le nostre compagne e di loro non sapemmo più nulla. Forse le loro famiglie erano state avvertite in tempo per fuggire? Forse erano state portate lontano in quei campi, che erano chiamati “campi di lavoro”, di cui nei paesi liberi all’epoca si sapeva poco o niente. Si venne a conoscenza di quell’orrore soltanto dopo la guerra, quando neanche i superstiti avevano il coraggio di parlarne. Gli ebrei di Roma condivisero la sorte infame di tutti gli ebrei d’Europa e furono deportati in silenzio. Dopo la guerra mi chiesero di aiutare gli ebrei che fuggivano dai paesi dell’Est per raggiungere quella terra lontana che non era ancora Israele. Allora io lavoravo con mio padre alla Presidenza del Consiglio e tramite lui riuscivo ad ottenere i documenti di passaggio dall’Italia per chi apparteneva a questo popolo perseguitato che non trova pace.

Eppure tra le accuse che suo padre ricevette c’è stata anche quella di non aver aiutato a sufficienza gli ebrei durante la guerra.

Purtroppo sì, lo accusarono anche di quello, perché da giovane sui giornali trentini aveva scritto di un caso contro due ebrei, un caso lontano e assai circoscritto che non aveva niente a che vedere con la situazione generale. Poiché non sono mai riusciti a trovare niente contro di lui, i suoi avversari politici hanno cercato di attaccarsi a qualsiasi cosa. Ma che fossero accuse ingiuste e del tutto infondate lo dimostra una bellissima pubblicazione che mi è stata donata alcuni anni fa dalla Comunità ebraica di Roma, che conservo con grande cura. È un piccolo volume di salmi in lingua ebraica che reca una dedica ad Alcide De Gasperi «per l’aiuto fornito agli ebrei e per aver lavorato indefessamente per l’umanità con amore, energia e un profondo sentimento dell’eterna dottrina, senza nessuna differenza tra le nazionalità cui gli uomini appartengono». Credo che questo cancelli ogni accusa nei suoi confronti.

Il 10 giugno 1940, dal balcone di Palazzo Venezia, Mussolini aveva annunciato la dichiarazione di guerra dell’Italia a fianco della Germania. Che effetto le fa ripensare a quei giorni?

Ricordo gli applausi e l’euforia della gente, come se avesse annunciato una buona notizia, quasi come se quella guerra l’avessimo già vinta. È incredibile come si possa manipolare la coscienza di un popolo. Era un lunedì e tornando a casa da scuola, vidi mio padre silenzioso e preoccupato. Nel suo diario non parla di quella giornata. Solo tra il 15 e il 20 maggio scrive: «Giornate agitate per l’invasione dell’Olanda, del Belgio, della Francia. Il Vaticano è guardato militarmente, le processioni proibite. In segreteria si dice che il governo italiano non risponde alle rimostranze del Papa. Violenti attacchi del Regime fascista, mescolandovi anche il mio nome. Contrariamente a quanto prevedo, si vuol sapere che l’intervento italiano non è imminente». Alcuni giorni dopo anche a Roma iniziano a suonare le sirene degli allarmi aerei e mio padre scrive nel suo diario: «Insonnia. Dopo tre notti in cantina, le bambine partono lunedì 24 giugno». Le bambine eravamo ovviamente io e le mie sorelle. Andammo in Trentino, lontane dalle bombe e dalla paura. Avevamo una radio che non prendeva bene le trasmissioni dall’estero e ascoltare Radio-Londra era assai pericoloso. Nei giornali italiani, invece, non si leggevano altro che notizie positive ed entusiaste sui nostri soldati in guerra.

Cosa diceva suo padre del Duce e del fascismo?

Del regime aveva un’idea terribile. In un piccolo quaderno annotava tutte le cose negative e quelle che lo facevano soffrire, come i sacerdoti che benedivano i gagliardetti e i cattolici che mettevano in mostra i simboli fascisti. Erano cose che lo facevano stare male fisicamente, dandogli ad esempio problemi di stomaco. Del Duce non parlava praticamente mai. Ricordo solo una volta, in Liguria, davanti a una folla di sostenitori che picchiavano le mani sul vetro della macchina per invitarlo a fermarsi, mi disse: «Capisco Mussolini. È difficile rendersi conto se fanno così perché hai fatto qualcosa di buono o solo perché sei il capo». Credeva che la vanità fosse un’insidia per un politico.

Com’era la vostra vita sotto il regime fascista?

Mio padre aveva trovato lavoro nella biblioteca del Vaticano, anche se all’inizio era guardato da molti con sospetto. La mattina andava in piazza San Pietro mentre di solito nel pomeriggio, per arrotondare, si dedicava alle traduzioni dal tedesco, una lingua che lui parlava come l’italiano. Mamma batteva a macchina mentre lui le dettava ad alta voce. Quando fui un po’ più grande mio padre iniziò ad assegnarmi qualche piccola missione. Nei giorni delle manifestazioni, in cui si temevano arresti e perquisizioni, mi affidava un pacco con il suo diario e le sue carte, da portare alla vicina del piano di sotto. Un giorno saltò fuori un ritaglio con il suo nome e capii finalmente chi fosse. Fu allora che cominciò a raccontarmi la sua attività politica, anche se ero poco più che una bambina.

Quando Roma fu invasa dai nazisti lui rischiò seriamente di fare una brutta fine.

Si era nascosto in San Giovanni in Laterano con altri politici, tra i quali anche Pietro Nenni. Ma a un certo punto dovettero andarsene perché quel rifugio non era più sicuro. La polizia tedesca aveva iniziato a fare retate negli istituti religiosi alla ricerca di ragazzi che si travestivano da preti per sfuggire alla chiamata alle armi, per non andare a combattere contro gli Alleati. Un giorno mia madre andò a prenderlo e si incamminarono verso piazza di Spagna, dove mio padre si fermò dentro a un bar con il cappello ben calato sulla fronte per non essere riconosciuto. In precedenza mia madre si era accordata con monsignor Celso Costantini, all’epoca segretario di Propaganda Fide, perché lo ospitasse nei locali di proprietà della congregazione. Per quattro mesi, a partire dal febbraio 1944, si rifugiò in un piccolo appartamento all’interno del palazzo della congregazione, che si trova a pochi passi da piazza di Spagna. Io allora non avevo paura di niente, come tutte le ragazze di vent’anni, e percorrevo le strade di Roma in bicicletta per andare a prendere gli articoli che scriveva e portarli nelle redazioni dei giornali clandestini che li avrebbero dati alle stampe.  Di solito mi vestivo con abiti colorati per sembrare una ragazza in gita ma nel cestino della bici, nascosti sotto sacchi di frutta e verdura, tenevo i suoi articoli e i messaggi per i partigiani. Una volta ero in tram quando il pacco si lacerò e un passeggero, capendo cosa c’era dentro, mi consiglio di scendere. All’epoca ero iscritta all’università di Lettere ma non la frequentavo, perché con un gruppo di ragazzi antifascisti avevamo deciso di non dare esami e soprattutto di non frequentare le lezioni, rimandando tutto al Dopoguerra.

Quindi anche lei dette un contributo di persona alla Resistenza romana.

Diciamo che, come tanti altri giovani di quell’epoca, cercavo di fare qualcosa contro il regime e quindi di impegnarmi contro i nazisti, i fascisti e la guerra. Nel gruppo di cui facevo parte c’erano molti miei amici dell’università. Ci limitavamo a diffondere pubblicazioni e volantini antifascisti. Li gettavamo di corsa, contando sull’effetto sorpresa e poi fuggivamo via in bicicletta. Il poco che ho fatto era sostenuto dalla leggerezza degli anni giovanili e non li ho mai considerati gesti di eroismo. Tenevo i collegamenti coi politici che avevano combattuto il fascismo, o andavo con altri a nascondere nelle grotte di tufo della campagna romana le armi che ci consegnava il Comitato di Liberazione. In questo modo ho imparato l’amore per la patria, per la pace e per la dignità di un popolo. Dopo la guerra volevano darmi una medaglia ma mio padre non volle, disse che non era il caso.

Come ricorda il giorno della Liberazione?

Ero a Roma e la notte prima della Liberazione non c’eravamo quasi accorti dell’arrivo delle truppe statunitensi. Vivevamo dietro San Pietro e ho un ricordo vivido dei soldati tedeschi che se ne andarono incamminandosi verso la via Aurelia. La gente provava pena nei loro confronti, perché erano in fuga, e quasi compativa quei ragazzi sconfitti.

Crede che la Liberazione sia diventata fin da subito appannaggio della sinistra e del PCI e se ne siano appropriati?

Il fatto è che i ragazzi, perché erano quasi tutti ragazzi, quelli che hanno fatto davvero i partigiani non erano né di destra né di sinistra. Erano gente che scappava dai tedeschi e dai fascisti oppure che cercavano di aiutare la gente a ritrovare la libertà. E molti di loro per questo ci rimisero la vita. Il fatto di essere o no comunisti fu un fatto dell’ultimo periodo. Ma fino ad allora erano soltanto giovani che volevano sfuggire alla guerra e liberare il paese. In seguito i comunisti li esaltarono come se fossero stati loro gli unici a combattere quella guerra.

A lei che ha vissuto da vicino e in prima persona i momenti della Liberazione, che effetto fa vedere che nel nostro Paese la gente continua a dividersi persino sul significato e sul valore del 25 aprile?

Che le devo dire, siamo capaci persino di festeggiare Napoleone. Certe cose vengono trascinate nel tempo perché in qualche modo la storia ci segue e non possiamo dimenticarla. Possiamo soltanto cercare di ragionare e analizzarla nel modo più sereno possibile. Dobbiamo ricordare chi ha perso la propria vita per la libertà e ha combattuto contro chi invece non ci credeva. Ma dobbiamo anche costruire un futuro all’interno dell’Unione Europea. Purtroppo ancora non siamo riusciti a farla davvero ma prima o poi ce la faremo. Io ho visto cos’è la guerra e so quanto sia difficile e faticoso costruire la pace.

Subito dopo la Liberazione suo padre fece un famoso discorso ai partigiani che suonò come un appello all’unità per il bene del Paese.

«Aiutateci», disse loro. «Aiutateci a superare lo spirito funesto delle discordie. Adesso è il momento di lasciar cadere il risentimento e l’odio; si deve perdonare». Lui teneva molto allo spirito unitario del 25 aprile.

Fu proprio allora che lei conobbe un giovane di nome Piero Catti, che sarebbe diventato suo marito.

Sì, era stato un comandante partigiano di area cattolica e, durante la Resistenza, aveva combattuto sulle montagne piemontesi. Subito dopo la guerra mio padre ritenne importante far vedere che, oltre ai tanti volontari che si dicevano comunisti o socialisti, ce n’erano anche molti altri di orientamento cattolico o liberale. La presidenza del Consiglio dei Ministri chiamò lui e altri comandanti partigiani per prendere parte a una manifestazione a Roma. Piero si prodigò molto per metterla in piedi ed ebbe un grande successo. Vi presero parte tantissime persone ed ex combattenti di tutti i tipi, cattolici e non, appartenenti all’intero arco politico non comunista. All’epoca io lavoravo nella segreteria di mio padre e avevo un piccolo ufficio accanto alla sua stanza, dove c’era un viavai continuo di persone importanti che dovevano incontrarlo. Fu così che, un giorno, incontrai colui che di lì a poco sarebbe diventato mio marito. Mi raccontò che abitava a Torino e in Piemonte aveva svolto la sua attività di partigiano, guidando una piccola formazione cattolica.

Dopo il suo matrimonio cambiò il rapporto con suo padre?

Sì, inevitabilmente, ma soltanto per un periodo molto breve, perché io partii per Torino. Mio marito aveva preparato un appartamento dove andammo a vivere non appena sposati. Ma la storia volle che le cose andassero in modo diverso. L’Italia era appena uscita dalla guerra ed era semidistrutta, soprattutto al Centro-sud. Mio marito era un costruttore e si rese conto che avrebbe dovuto lavorare soprattutto nel Meridione e quindi era del tutto inutile che io stessi ad aspettarlo a Torino mentre lui si trovava sempre nel Centro o nel Sud del Paese. Devo dire che fui felicissima di far ritorno a Roma, dove avrei avuto modo di star vicina a mio padre e anche di lavorare per lui.

A Torino era nato però il suo primo figlio. Anzi, negli stessi giorni di luglio del 1948 in cui lei si trovava a Torino, in ospedale, per partorire, Palmiro Togliatti subì un attentato che rischiò di far precipitare il paese nella guerra civile. Furono giorni di caos, con uno sciopero generale che bloccò l’Italia. Eppure suo padre riuscì lo stesso a prendere l’aereo per venire a trovarla.

Fu un momento molto brutto. La città in subbuglio, piena di militari e di gente pronta anche a combattere se ci fosse stata una richiesta in tal senso da parte di Togliatti, che però per fortuna disse agli operai di fermarsi, con un atto di grande responsabilità. Fui molto contenta di apprendere che nostro figlio era un maschio, perché sapevo quanto ci teneva mio padre, e quanto sarebbe stato felice di avere un nipotino. Quando ci fu l’attentato io ero già stata ricoverata per partorire e inizialmente cercarono di tenermi all’oscuro di tutto. Soltanto in seguito scoprii che la polizia stava piantonando la clinica per timore che potesse accadermi qualcosa. All’epoca mio padre era già Presidente del Consiglio e infatti non poté venire subito a trovarmi, ma dovette aspettare qualche giorno. Per prima cosa andò a trovare Togliatti all’ospedale dov’era ricoverato. Sulla mia scrivania tengo sempre una foto di mio padre con Giorgio, il mio primogenito, che all’epoca aveva tre anni. Mio padre si dedicava molto a lui quando aveva tempo, soprattutto in estate. Sperava di vederlo crescere ma non ci riuscì perché era già avanti con l’età.

Suo marito non era in qualche modo geloso di lui? Quali furono i rapporti tra loro due?

Geloso direi proprio di no. Anche lui era innamorato di mio padre come me e tra loro ci fu sempre uno splendido rapporto. Papà era una persona che sapeva prendere le persone per il verso giusto, era dotato di una grande empatia ed entrava subito in sintonia con la gente. Aveva quindi capito subito che tipo era mio marito, il quale da giovane aveva fatto il partigiano, aveva sofferto molto e aveva un temperamento deciso. Mio padre non ha mai avuto dei veri nemici. Anche chi lo era sul piano politico poi non lo era sul piano umano. Chi andava via dal suo ufficio aveva sempre la sensazione di essere stato trattato con correttezza e lealtà, anche se non aveva ottenuto quello che voleva.

Dopo la fine della guerra iniziò subito a lavorare con suo padre?

Quando con mio marito lasciammo Torino per tornare definitivamente a Roma iniziò un periodo molto bello. Mio padre, per non tornare sempre a Castelgandolfo dove all’epoca risiedeva la mamma, veniva quasi tutti i giorni a mangiare a casa mia. Io lo aiutavo come potevo e per me era una grande gioia. Mi ero abituata a essere la sua segretaria. Quando lui voleva ricevere qualche persona lontano dalle stanze ministeriali veniva a casa mia. Ovunque andava, mio padre portava con sé qualcuno della famiglia. I primi anni andavo io, poi in seguito andò spesso anche mia madre. Io l’avevo seguito ad esempio a Salerno, dove dal febbraio 1944 si era insediato il governo provvisorio dell’Italia che stava uscendo definitivamente dall’era fascista. Erano rappresentati tutti i partiti, ma di figure davvero preparate per la politica ce n’erano davvero pochissime. Ci misero a dormire tutti nella villa Guariglia, vicino a Salerno, che però non era pronta ad accogliere così tanta gente e quindi si verificarono anche delle situazioni abbastanza comiche. Io mi ritrovai a essere l’unica donna là dentro. Mio padre mi aveva fatto studiare dattilografia e quindi capitò che mi facessero redigere testi non solo per mio padre e quindi per la Democrazia Cristiana, ma anche per gli altri partiti. Quello era un governo molto povero, che rifletteva la situazione del nostro paese all’epoca. Ricordo che quando eravamo a tavola, nella villa che aveva accolto tutti i ministri e i collaboratori, anche il cibo era scarso. Si respirava un clima di povertà ma anche di profonda dignità. L’Italia era allora una nazione assai povera, che aveva partecipato alla guerra dalla parte sbagliata e che doveva ricominciare da zero facendo un lavoro enorme al fianco degli alleati. Si percepiva un pressante bisogno di tornare a essere ascoltati nello scacchiere internazionale. Ci riuscimmo a poco a poco, con grandi sacrifici e tanto lavoro.

Nella sua attività di segretaria personale di suo padre le capitava di ricevere lettere dal presidente statunitense, Harry Truman, oppure di trovarsi a chiacchierare con Konrad Adenauer e Robert Schuman, con Pietro Nenni e Palmiro Togliatti.

Non voglio dare l’idea che avessi un ruolo così importante. Ero una giovane ragazza, talvolta anche piuttosto ingenua. Svolgevo un compito piccolo e semplice: consisteva nel cercare le carte e i documenti che servivano a mio padre e raccoglievo informazioni sulle persone che doveva incontrare. Dovevo preparare dei promemoria e recapitarglieli prima dei suoi incontri, ricevevo e smistavo le telefonate. Gli facevo da segretaria in senso stretto, filtrando le chiamate e gli appuntamenti. Data la mia giovane età e la mia inesperienza si trattava comunque di un lavoro importante e molto impegnativo. All’epoca vivevo quella condizione come se fosse del tutto normale, sebbene avessi contatti quasi quotidiani con tante personalità appunto come Schumann, Adenauer e i leader dei principali partiti politici italiani. Molti di loro sarebbero diventati anche degli amici. Lavoravo su una scrivania che si diceva fosse appartenuta a Giovanni Giolitti, non so se fosse vero. Sopra avevo messo un grande portasigarette poiché allora fumavano tutti, e chiunque venisse lì e rimanesse in attesa per parlare con mio padre si accendeva una sigaretta e poi me ne offriva una. Io non fumavo, ma me ne facevo comunque dare una o due che mettevo da parte per i poveri o i carcerati. Alla fine riempii questa coppa di sigarette, che poi feci recapitare ai bisognosi.

Suo padre le chiedeva mai opinioni o consigli di natura politica?

No. Aveva spesso la bontà di confidarmi le cose – anche quelle riservate – ma consigli non me ne chiedeva mai. Bisogna tener conto che io ero davvero molto giovane. Parlavamo molto, quello sì, io gli dicevo quello che pensavo e lui aveva molta fiducia nella mia serietà sul lavoro e nella mia devozione nei suoi confronti. Ma consigli politici veri e propri non me li ha mai chiesti, né io non mi sono mai azzardata a darglieli. Mi limitavo a fargli presente le mie impressioni sulle persone che incontrava, perché ho sempre avuto una facilità di giudizio nei confronti della gente.

Quella grande foto che tiene sulla sua scrivania ritrae suo padre con una dedica, «alla mia cara segretaria e compagna d’America». Si riferisce allo storico viaggio del 1947?

Certo. Il 4 gennaio di quell’anno mi imbarcai con mio padre, che allora era Presidente del Consiglio, sull’aereo che ci portò per la prima volta negli Stati Uniti. Fu un viaggio molto complicato, già dal punto di vista dei trasferimenti. A quel tempo gli aerei erano dei vecchi quadrimotori che volavano molto bassi e facevano un rumore infernale, non salivano sopra alle nuvole come fanno oggi. Si vedevano le città, i mari e le montagne. Il programma prevedeva anche di trascorrere una notte fuori. Io e mio padre avevamo una cabina con due letti. Quando attraversammo l’oceano le condizioni meteorologiche si fecero molto brutte e l’aereo ebbe una serie di movimenti spiacevoli. Io dal mio letto al piano di sopra cercavo di tranquillizzarlo. Gli dicevo «non preoccuparti papà, io so nuotare». Mio padre rideva, pensando che invece lui non sapeva nuotare. Non si trattò di una visita ufficiale in senso stretto, perché in realtà il governo italiano non aveva ricevuto alcun invito ufficiale da parte di Washington. Il programma del viaggio prevedeva che mio padre parlasse all’università ma di fatto fu un pretesto, al quale lui non era granché interessato. Voleva invece utilizzare quell’occasione per avvicinare il governo degli Stati Uniti. All’epoca il nostro paese versava in una situazione molto difficile: ci trovavamo in una povertà del tutto inimmaginabile al giorno d’oggi. L’intera Italia del Sud era distrutta, le case erano state ridotte in macerie dai bombardamenti alleati. Le fabbriche, le strade, i ponti, tutto era distrutto. Era molto difficile far comprendere una situazione simile al popolo statunitense perché loro, pur avendo partecipato alla guerra, non avevano conosciuto la morte e la distruzione a casa loro.

C’è chi ha sostenuto a lungo che in quel viaggio del 1947 De Gasperi andò a trattare con gli Stati Uniti l’esclusione dei comunisti dal governo, in cambio degli aiuti economici necessari all’Italia per la ricostruzione.

Non fu assolutamente per quello. L’obiettivo era quello di conquistare una stima e una fiducia che subito dopo la guerra non erano per niente scontate. Lui andò a descrivere qual era la situazione italiana e a far presente che, per mantenere la nostra libertà, avevamo bisogno di un aiuto concreto e immediato, altrimenti non ce l’avremmo mai fatta. Il nostro ambasciatore negli Stati Uniti, Alberto Tarchiani, fece un gran lavoro preparatorio, descrivendo a chi di dovere come stava il nostro paese e prodigandosi per organizzare certi incontri. Però non fummo accolti ufficialmente dal governo statunitense. Ricordo che le associazioni degli italiani d’America, alcune delle quali avevano grandi possibilità, avevano tutte un gran desiderio di ospitare mio padre per un pranzo o per un discorso. Ricordo la fatica di dover partecipare a un numero enorme di incontri e appuntamenti ogni giorno. Era necessario cambiarsi continuamente d’abito. Mio padre era capace di riposare per appena un quarto d’ora, si sedeva su una poltrona e si imponeva di dormire per soli quindici minuti, riuscendoci. Faceva lo stesso anche durante le campagne elettorali, aveva come un automatismo biologico che gli consentiva di farlo. Negli Stati Uniti trascorremmo giornate molto frenetiche, che ci videro correre da un posto all’altro per ottimizzare il più possibile la nostra presenza.

Ci fu davvero il rischio di tornare a casa a mani vuote?

Furono giornate molto difficili. Tutti ci ospitavano con splendidi pranzi e ricevimenti, quelli degli italo-americani erano particolarmente sfarzosi. Continuavano a farci incontrare gente, il mattino gli industriali, il pomeriggio i capi dei ferrovieri, ma di aiuti non parlavano mai; e l’Italia era letteralmente alla fame. La richiesta che la nostra ambasciata aveva inoltrato per un aiuto concreto continuava a non ricevere risposta. La penultima sera mio padre mi disse sconsolato: «Qui ripartiamo a mani vuote. Temo proprio che torneremo a casa senza niente». Rimanevano solo un paio di riunioni e lui aveva ormai quasi perso ogni speranza. Invece, proprio l’ultimo giorno, gli fu consegnato un assegno da cento milioni di dollari della Export-Import Bank, che ci consentiva di tornare in patria con gli aiuti necessari a una certa ripresa economica. Anche i comunisti, che all’inizio erano scettici, alla fine dovettero ricredersi.

© Archivio Della Porta
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Qual era il rapporto di Alcide De Gasperi con il denaro?

Aveva un disinteresse assoluto. Pensi che pur essendo il Presidente del Consiglio, per andare negli Stati Uniti dovette farsi prestare un cappotto dal segretario della DC, Attilio Piccioni, perché all’epoca non ne possedeva uno adeguato ad incontrare il presidente Truman e a partecipare ad altri appuntamenti pubblici di rilievo. Ma ricordiamoci che a quei tempi l’Italia viveva nella miseria più nera. Per esempio, i poliziotti non avevano scarpe: aspettavano a piedi nudi in caserma che rientrassero i commilitoni per calzare le loro.

Oggi sarebbe impensabile che un Presidente del Consiglio chiami sua figlia a fargli da segretaria. È vero che all’epoca lei non guadagnava niente?

Certo. Mio padre riteneva che in famiglia non potesse esserci più di uno stipendio pubblico. Così mi passava semplicemente una parte del suo.

Fu sempre durante quello storico viaggio negli Stati Uniti che un giorno lei si ritrovò a un pranzo accanto a Enrico Fermi?

Sì, partecipavamo a pranzi giganteschi ai quali noi, arrivando da una terra povera, non eravamo abituati. Trovarsi ad un pranzo con decine di tavoli pieni di persone per me era una cosa incredibile, e anche per mio padre. Io cercavo di cavarmela con il mio inglese scolastico, mio padre era in un tavolo di fronte a me e a volte mi lanciava degli sguardi. A un certo punto mi fece arrivare un piccolo foglietto con scritto «stai attenta alla tua destra c’è Enrico Fermi» e, tra parentesi, «bomba atomica». Sbiancai. Fino a quel momento gli avevo detto solo sciocchezze, discorsi di circostanza di una giovane ragazza che era finita in America quasi per caso. Quando appresi chi era quell’uomo mi zittii del tutto. Ma questo piccolo aneddoto racconta a mio avviso molto bene com’era attento mio padre alle persone, aveva una memoria formidabile e una grande sensibilità nei confronti di chi gli stava attorno.

Quale delle grandi personalità che ha incontrato l’ha colpita in modo particolare, e perché?

Direi il francese Schuman e il tedesco Adenauer, con i quali anche mio padre ha sempre avuto un rapporto particolare, molto stretto, favorito anche dal fatto che riuscivano a dialogare tra loro usando la stessa lingua, il tedesco. Entrambi erano persone di grande fede nell’umanità. Dopo una guerra così disastrosa riuscivano ancora a immaginare un’Europa unita. Adenauer era un uomo molto serio e assai legato a mio padre, perché lui fu il primo a incontrarlo, quando tutti lo respingevano. Ma il suo vero amico fu Schuman. Quando papà morì, mi invitò a Parigi e mi chiese di lasciargli qualche sua lettera, come ricordo. Con Adenauer ebbi invece maggiori difficoltà a dialogare e a restare in contatto, non conoscendo il tedesco. Mio padre avrebbe voluto che lo imparassi – mi aveva anche regalato una grammatica tedesca – ma io mi ero limitata a studiare l’inglese e il francese.

Lei ha accompagnato suo padre in alcuni dei momenti decisivi del dopoguerra e della costruzione dell’Italia repubblicana, ma è sempre rimasta molto defilata, dietro le quinte.

Sì, non mi troverà mai nelle fotografie ufficiali. Io seguivo mio padre molto spesso, anche durante le campagne elettorali, ma non salivo mai sul palco con lui, rimanevo sempre nelle retrovie. Non lo trovavo né utile, né giusto. Non mi piaceva. Preferivo che in quel momento avesse al suo fianco le persone che avevano bisogno di essere sostenute, magari che la vicinanza con lui potesse servire loro per essere elette. Allora le campagne elettorali erano profondamente diverse da quelle di oggi. Folle sterminate riempivano le piazze, non solo per mio padre ma anche per gli atri principali leader politici. Vede, ad esempio, questa foto di piazza del Popolo, a Roma, strapiena di tricolori e bandiere bianche della DC? A volte la gente lo interpellava issando cartelli con qualche domanda, lui allora rispondeva e il cartello si abbassava. Mio padre aborriva nel vero senso della parola il populismo, lo considerava retaggio del fascismo. Era straordinario osservare l’entusiasmo e l’attenzione della gente quando parlava in campagna elettorale. Ricordo in particolare un comizio di mio padre a Trieste, nell’immediato dopoguerra, quando ancora non si sapeva se la città sarebbe rimasta a far parte dell’Italia oppure no. Piazza dell’Unità era piena di bambini e di ragazzi che indossavano i colori della bandiera italiana, mantelle bianche, rosse e verdi, una cosa che all’epoca era stata espressamente proibita dagli americani. Li ricordo arrampicati sui pali della luce, sui balconi, sbucavano dalle finestre, erano dappertutto. Mio padre doveva stare molto attento a non citare direttamente la questione di Trieste. Ma sul più bello, mentre la gente gli batteva le mani, qualcuno spaccò la vetrina di una sala dov’era appesa la bandiera italiana e la dette a mio padre. Si alzò un grido bellissimo di tutta la piazza: «Viva l’Italia, viva l’Italia!». Fu un momento davvero molto emozionante.

Nel libro De Gasperi, uomo solo, lei ha riportato l’estratto di una lettera in cui suo padre scrisse a Togliatti queste parole: «Tu non mi hai mai illuso, né io ti ho mai fatto supporre che ci potessimo scambiare anche le dottrine, le tendenze e direi anche le parti: cioè che tu facessi il cristiano ed io il marxista. Ognuno nasce con i connotati propri e se i contatti sono sempre possibili non è lecito confondere le ragioni tattiche con le convinzioni». Che rapporto ebbe suo padre con Palmiro Togliatti?

Lo considerava un uomo molto intelligente e molto colto. D’altra parte, anche lui leggeva il greco e latino e amava Dante. Mio padre lo stimava e apprezzava il suo equilibrio nel guidare i comunisti in un paese come l’Italia, che era legato agli americani. Ma direi che con Togliatti non ci fu mai una vera amicizia, piuttosto una forma di collaborazione per ricostruire l’Italia e creare la prime istituzioni democratiche di un paese uscito con le ossa rotte dalla guerra. Mio padre lamentava anche una certa ambivalenza da parte di Togliatti. Quando erano al governo insieme capitava spesso che concordassero una decisione all’interno del Consiglio dei Ministri e poi il giorno dopo l’Unità attaccasse mio padre. La collaborazione tra loro due durò molto poco e la campagna elettorale del 1948 segnò una rottura anche sul piano personale. Infine Togliatti tolse il saluto a mio padre.

I comunisti lo calunniarono anche per le sue origini trentine.

Sì, lo chiamavano «austriacante», sostenendo che avesse simpatizzato per gli austriaci nel periodo della loro dominazione in Italia. Questo lo faceva soffrire moltissimo, perché lui si è sempre sentito profondamente italiano. Amava la sua patria ancora di più proprio per il fatto di essere nato suddito dell’imperatore asburgico. Da Roma mandava a Trento cartoline piene di ammirazione per la città, la sua storia, la sua bellezza. I comunisti ripresero anche alcune vecchie calunnie dei fascisti, scrivendo che aveva gioito per l’impiccagione di Cesare Battisti. Questo lo indignò particolarmente, perché mio padre aveva anche trascorso due settimane con Cesare Battisti nelle carceri austriache. Si erano battuti insieme per istituire un’università italiana. E lo accusarono anche di voler svendere il Paese agli americani. Per fortuna, Togliatti ebbe la lucidità di frenare certe spinte rivoluzionarie. Il PCI aveva capito ormai i limiti dell’Unione Sovietica e sapeva di dover evitare la lotta armata. Nel 1949 l’Italia era già militarmente ed economicamente legata agli Stati Uniti d’America.

È corretto dire che Alcide De Gasperi riteneva inconciliabili il comunismo e la fede cristiana?

Sicuramente. Non era questione di avere poca o tanta amicizia con Palmiro Togliatti, tra loro vi fu prima di tutto una lotta di princìpi. Un giorno mi raccontò che, dopo la rottura con i comunisti, incontrò Togliatti in Parlamento e lo salutò, ma lui gli voltò le spalle. Per il segretario del PCI l’uscita dal governo e il definitivo passaggio dell’Italia sul fronte occidentale fu uno smacco, lo considerò quasi un’offesa personale. Da quel momento in poi i comunisti si indurirono molto. Anche gli altri leader comunisti si scagliavano sempre contro mio padre. Ricordo un discorso di Giancarlo Pajetta, che un giorno salì in piedi sopra il suo scranno inveendo contro De Gasperi come se fosse in piazza, non in parlamento. Mio padre gli rispose con un tono pacato ma fermo: «Prima di tutto siediti e poi calmati».

Con Nenni ebbe invece un rapporto molto più umano.

Sì, non solo perché Nenni era più umano e, in un certo senso, personalmente più affine a lui, ma anche perché erano rimasti nascosti insieme nelle cantine del Seminario lateranense durante l’occupazione nazista. Un giorno ci fu una retata e loro si rifugiarono in cantina. Nenni sbottò: «Tu dirai che è Dio, io dico che è il fato, ma questa volta ci prendono». Invece non li trovarono. Tra loro si era sviluppato un rapporto più stretto e cordiale sul piano personale, molto migliore di quello che c’era con Togliatti. In quei mesi tra il 1942 e il 1943 vi fu anche un accenno di collaborazione fra socialisti e democristiani, al quale Nenni però si oppose perché era sicuro che sarebbero stati i comunisti ad avere la meglio alle urne. Ma si sbagliò. Quando mio padre seppe che Vittoria, la figlia di Nenni, era morta nel campo di concentramento di Auschwitz, volle andare di persona a dargli quella terribile notizia.

Suo padre rimproverò a Nenni un rapporto un po’ subalterno nei confronti di Togliatti.

Sì, in un famoso articolo intitolato Anche tu, povero Nenni, che scrisse su Il Popolo, gli disse apertamente che si stava mettendo dalla parte sbagliata e cercò di fargli cambiare idea, ma non ci riuscì.

Con le gerarchie cattoliche non ebbe invece rapporti sempre idilliaci. Era un uomo che credeva profondamente nella laicità della politica e anche per questo nei primi anni Cinquanta ebbe un rapporto non facile con Pio XII. Contrasti che vennero a galla in modo evidente nel giugno 1952, quando suo padre chiese un’udienza al Papa. Cosa accadde di preciso?

Era il suo trentesimo anniversario di matrimonio e mia sorella Lucia aveva appena preso i voti. Mio padre – che all’epoca era presidente del Consiglio e ministro degli Esteri – chiese un’udienza per tutta la sua famiglia tramite il nostro ambasciatore in Vaticano, Giorgio Mameli, il quale era sicuro che Pio XII avrebbe accettato. Invece, qualche giorno dopo, arrivò una lettera di risposta dai toni disperati, in cui Mameli affermava di non comprendere perché il Santo padre non ci volesse ricevere, e ci assicurava che avrebbe riprovato. Ciò dette un grande dispiacere a mio padre, il quale aveva sempre cercato in tutti i modi di separare la sua fede cristiana dalla sua vita e dalla sua attività politica. E lo fece sebbene il cristianesimo fosse un principio fondante del suo partito. È probabile che in quel momento a Pio XII sia stato suggerito che non fosse politicamente utile e opportuno ricevere il capo di un partito che non aveva seguito in tutto e per tutto le idee del Papa. La Democrazia Cristiana aveva ottenuto il massimo dei voti alle ultime elezioni e avrebbe potuto governare da sola, invece non lo fece e probabilmente il fatto che mio padre avesse chiamato altri partiti a governare con lui era stato ritenuto ingiusto negli ambienti del Vaticano. Ma mio padre andò avanti per la sua strada. Sapeva benissimo che gli italiani non avevano votato per lui in modo così massiccio perché erano intimamente democristiani, ma in gran parte l’avevano fatto soltanto per paura dei comunisti. Molti avevano votato anche senza condividere fino in fondo i principi della DC. Mio padre era un politico raffinato e conosceva bene queste dinamiche, quindi pensò di far entrare nel suo governo altre forze politiche come i liberali, i socialdemocratici, i repubblicani, perché rappresentavano una fetta importante del popolo italiano e sapeva che su di essi avrebbe potuto contare anche in un futuro. Ciò non gli fu perdonato da una parte del mondo cattolico e questa fu la ragione principale dei rapporti difficili con papa Pio XII. Può sembrare incredibile ma in quegli anni, da presidente del Consiglio, non lo incontrò mai. Del resto, allora il Papa era inavvicinabile. Mio padre gli scrisse tante lettere, alle quali non ricevette mai alcuna risposta.

Peraltro, in quei mesi il Vaticano avrebbe anche voluto che la DC si alleasse con l’MSI e con i monarchici in un listone anticomunista per impedire che il PCI conquistasse il Campidoglio. Ma suo padre, da antifascista convinto qual era sempre stato, rifiutò di obbedire alle pressioni che gli giungevano dal Vaticano, temendo che l’esperimento potesse creare un pericoloso precedente. Poi la temuta scalata rossa non avvenne. Anche quell’episodio influì sul “gran rifiuto” di Pio XII?

Certo. Resta il fatto che quel rifiuto papale lo addolorò profondamente. Scrisse all’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede una lettera che contiene un passaggio di grande dignità: «Come cristiano accetto l’umiliazione, benché non sappia come giustificarla; come presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, la dignità e l’autorità che rappresento e di cui non mi posso spogliare, anche nei rapporti privati, m’impone di esprimere stupore per un rifiuto così eccezionale e di riservarmi di provocare dalla Segreteria di Stato un chiarimento».

Il grande storico cattolico Pietro Scoppola, nel suo libro La proposta politica di De Gasperi scrive che l’immagine di suo padre come «uomo solo» non è solo una felice immagine letteraria ma è anche un’acuta intuizione storica. Perché lo definì così nel suo libro?

Non significava che fosse un uomo votato alla solitudine. Anzi, lui viveva molto volentieri in mezzo alla gente, voleva comunicare con le persone e sentirle discutere, aveva iniziato a farlo fin da ragazzo. Ma si ritrovò solo quando dovette prendere decisioni assai difficili, che riguardavano lui stesso in particolare – quindi seguire un certo tipo di vita – e nello stesso tempo cercare di essere un esempio di fronte alle difficoltà. E quanto fu difficile, in un certo periodo della sua vita, ritrovarsi da solo. Durante il periodo fascista, ad esempio, non poteva parlare quasi con nessuno al di là di pochissimi amici. Lo stesso avvenne nel periodo più tardo, quando parlava davanti al popolo e diceva sempre quello che pensava. Ma poi realmente non possiamo certo dire che fu seguito nelle sue idee e nei suoi principi. La sua fu innanzitutto una solitudine di natura politica, poiché la “sua” politica era basata sulla serietà, sui principi, sulla sicurezza di essere su una strada giusta, sulla bontà delle proprie scelte. Di tutto questo si parla ben poco nei tanti libri che parlano di lui e che solitamente non citano questo aspetto relativo alla sua interiorità, o lo fanno soltanto di sfuggita.

Prima della guerra, ai tempi in cui lavorava nella biblioteca Vaticana, suo padre conobbe un giovane che poi sarebbe diventato un suo stretto collaboratore e sottosegretario nel suo quarto governo, nel 1947. Era Giulio Andreotti.

Si incontrarono per la prima volta quando mio padre lavorava alla biblioteca Vaticana, durante il fascismo. Andreotti era all’epoca un giovane studente impegnato nella ricerca per la sua tesi universitaria sulla Marina pontificia. Si imbatté in questo impiegato che gli disse sorpreso: «Non potrebbe trovare argomenti più seri o utili ai quali dedicarsi?». Andreotti gli rispose un po’ infastidito e insistette per avere quei volumi che aveva chiesto in lettura. Quell’impiegato era mio padre. Poi si rividero in seguito, nelle riunioni clandestine che si svolgevano a casa di Giuseppe Spataro, dove lavorarono alla formazione della Democrazia Cristiana. Ci si preparava per la fine del regime. Mio padre apprezzò subito le doti di quel giovane e iniziò ad affidargli incarichi di sempre maggiore responsabilità. Prima il collegamento con esponenti della resistenza romana e alla redazione de Il Popolo, che all’epoca veniva stampato in clandestinità, poi le missioni di collegamento con esponenti cattolici nell’Italia occupata. Infine, nel 1947, lo scelse come sottosegretario. Mio padre lo considerava un uomo politico molto attento e rigoroso. Ricordo che quando voleva una notizia certa la chiedeva a lui, perché sapeva che poteva fidarsi della sua precisione. Era anche facilitato dai contatti diretti che ha sempre avuto con il Vaticano. Dopo la morte di mio padre, Andreotti ha preso tutta un’altra strada e non abbiamo più avuto alcun contatto.

Quali furono i rapporti tra lei e Andreotti dopo la morte di suo padre?

Non ho mai avuto rapporti personali con lui. Conoscevo la signora e i ragazzi perché venivano al mare dove andavo io, ma anche lei era molto riservata e non abbiamo mai avuto modo di approfondire la conoscenza.

Il germe della fratellanza dei popoli europei in nome della pace e della solidarietà umana era presente in De Gasperi già nel 1921, quando scrisse che «il nuovo internazionalismo non dovrà intersecare le nazioni per spezzarle ma dovrà unirle. E che l’internazionale popolare dovrà essere una comunanza di iniziative per attuare, nei rapporti politico-economici tra popolo e popolo, quelle massime di giustizia e fratellanza cristiana che possono tenere lontane le guerre e rafforzare sul terreno sociale la solidarietà umana».

Mio padre era italiano, ma l’Italia non era ancora fatta e pertanto nacque suddito dell’imperatore austroungarico. Essere stato deputato nel parlamento austroungarico, dov’erano presenti un’infinità di nazioni piccole e grandi, al cui interno si sentiva davvero la voce dell’Europa, fu per lui una straordinaria preparazione a ciò che sarebbe avvenuto dopo. Per la sua formazione politica fu importantissimo confrontarsi con i rappresentanti di tutti quei popoli, ciascuno dei quali aspirava a ottenere la propria libertà. I discorsi di mio padre alla Camera austriaca – che purtroppo non hanno mai riscontrato grande attenzione – sono molto interessanti, perché mio padre difende quel piccolo paese molto povero, ma dai principi solidi e onesti, che era allora il Trentino, e che faceva parte di un grande impero. Non è un caso che anche il Trentino di oggi appaia profondamente diverso dalle altre parti d’Italia in termini di serietà, di sobrietà e di morigeratezza.

Invece proprio l’embrione dell’Europa unita avrebbe segnato il suo grande rimpianto politico, perché non riuscì a ottenere il via libera alla CED, la Comunità europea di difesa, vale a dire, in prospettiva, un’unità politica e militare con un esercito unico per Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi. È famosa l’ultima telefonata che fece a quello che era all’epoca il presidente del Consiglio, Amintore Fanfani, pregandolo di sostenere con tutte le sue forze la firma della CED.  Ma capì che non sarebbe stato possibile. Perché suo padre sognava così tanto un esercito europeo unito?

Quello fu un lavoro difficilissimo, sia da parte sua che di Schumann e Adenauer. Loro tre volevano a tutti i costi creare un esercito europeo per sviluppare una forza difensiva capace di porre le fondamenta di una comunità politica europea. I verbali delle riunioni di allora riportano le lunghe discussioni che fecero, ad esempio, sulle divise che questo esercito avrebbe dovuto indossare, sui metodi di arruolamento. Ogni tanto dai discorsi emerge la voce di mio padre che cerca di far presente la necessità di un’unità europea, ed è molto interessante sentirlo interrompere gli interventi e porre la prospettiva di un’unione politica come presupposto imprescindibile di questo esercito. Mio padre, Schuman e Adenauer vedevano molto lontano. Erano tre grandi uomini che avevano sofferto molto nelle varie guerre di inizio secolo ed erano anche accomunati da vicende simili, dall’amore per la propria terra e dalla sete di libertà. Era davvero affascinante sentirli parlare.

Nell’estate 1954 l’Assemblea nazionale francese si preparava a votare sulla CED. Mio padre si trovava nella sua casa di Borgo Valsugana. Era malato e stanco dei contrasti interni alla DC ma seguiva attentamente le vicende della CED, in cui aveva riposto le sue speranze europee. Mandò anche alcune lettere a Roma in cui chiedeva al partito di accelerare la ratifica. Morì il 19 agosto, 11 giorni prima che l’Assemblea nazionale francese, con uno stratagemma procedurale, archiviasse il trattato: 319 voti contro 264.

Lei crede in questa Europa?

Certamente. Penso che sia la nostra unica nostra speranza e credo che sia inutile e dannoso pensare di cambiarla semplicemente parlandone male. Al contrario, abbiamo il dovere di continuare a crederci e di fare di tutto per migliorarla. Io auspico fermamente che questa Europa si unisca davvero. Guai se facessimo come la Gran Bretagna. La collaborazione tra le nazioni è importante per radicare nelle popolazioni un’idea di pace e di costruzione politica comune. Ultimamente questo ci è un po’ sfuggito dalle mani perché abbiamo allargato troppo i confini di questa comunità senza pretendere una maggiore serietà politica ed economica. Siamo un insieme di popoli ma lo spirito di unità è venuto un po’ a mancare qualche tempo fa in un momento inaspettato, con il voto francese (il riferimento è al referendum del 2005 che in Francia bocciò il Trattato costituzionale dell’UE). Da allora non si è più riusciti a rilanciare quella spinta verso l’unità che era stata promossa da mio padre, da Schumann, e da Adenauer. Forse sarebbe stato utile che tutti e tre vivessero almeno altri dieci anni per avere il tempo di consolidarla.

Cosa ricorda degli ultimi mesi di vita di suo padre?

Nel 1953 affrontò le elezioni pur sapendo che le avrebbe perse, perché era un uomo d’onore e sapeva che non poteva tirarsi indietro. Dopo quella tornata elettorale andò al governo Giuseppe Pella e un aneddoto di quei giorni mi è rimasto impresso. Mio padre si trovava a Castel Gandolfo e Pella – appena incaricato come Presidente del Consiglio – venne a rendergli omaggio. Da quel momento in poi mio padre volle sempre rimanere in seconda fila ed ebbe un atteggiamento estremamente riguardoso nei suoi confronti. Quel giorno stesso fu lui ad aprire la porta a Pella e mi fece molta impressione perché ero abituata a vedere gli altri che aprivano la porta a lui. È un piccolo aneddoto che a mio avviso rende bene il profondo senso delle istituzioni che aveva mio padre, il quale sapeva molto bene cosa un uomo potesse rappresentare. E in quel momento Pella rappresentava il governo italiano.

A Castel Gandolfo c’era la villa che gli era stata donata dal partito?

Sì, gliela regalarono tre anni prima della sua morte. Inizialmente lui la rifiutò, dicendo che non la voleva. Ma poi un funzionario della DC lo portò a vederla e gli mostrò una busta contenente centinaia di foglietti, in ciascuno dei quali c’era una piccola offerta volontaria di due lire, cinque lire, e così via. La gente aveva fatto una colletta per donargli quella villa di fronte al lago e lui si rese conto che non avrebbe potuto rifiutarla. Lì trascorse alcuni periodi degli ultimi tre anni della sua vita. Ci portava il bellissimo cane lupo che gli era stato regalato dalla Polizia. La mattina, quando mio padre si svegliava, il cane correva al suo letto e gli faceva un sacco di feste. E quando mio padre morì, spegnendosi nella casa in montagna, il cane che era invece rimasto a Castel Gandolfo continuò per tre giorni ad andare su e giù dalla cuccia al cancello nella speranza di veder arrivare la macchina di mio padre. Poi si rassegnò, smise di mangiare e morì.

Alcide De Gasperi morì il 19 agosto 1954 a Borgo Valsugana. Cosa ricorda di quel giorno?

Ci furono manifestazioni immense in tutto il Paese e nei filmati d’epoca si vede la gente per le strade di montagna che va a rendergli omaggio. Con le mie sorelle e mio marito non sapevamo come fare ad accogliere tutta la gente che voleva salutarlo per l’ultima volta. Nella chiesa di Borgo Valsugana la gente era smarrita, si rendeva conto di aver perso un padre o un amico. Poi la salma venne trasportata a Trento dove ci fu una grandissima manifestazione in suo onore. Infine venne portato a Roma, in treno, tra due ali di folla inginocchiata. Noi della famiglia non abbiamo avuto il coraggio di salire su quel convoglio. Preferimmo scendere in macchina, da soli. Il treno rallentava o faceva soste in tutte le stazioni, anche la più piccola, perché ovunque c’era gente che gridava il suo nome, esponeva bandiere o striscioni a lutto. Quando il convoglio si fermava, aprivano le porte e facevano salire la gente che voleva rendere omaggio alla salma. A Roma un’enorme una folla immensa seguì il suo feretro dalla chiesa del Gesù fino a Santa Maria Maggiore. Più che la sua fine sembrava che fosse il suo trionfo. Ricordo che la gente aveva la sensazione di sentirsi smarrita senza di lui, come se avesse perso un punto di riferimento imprescindibile, anche se magari non condivideva necessariamente le sue idee politiche. Gli italiani gli erano riconoscenti per aver ristabilito la dignità nazionale.

Molti anni prima di morire suo padre aveva anche scritto a sua madre una bellissima lettera-testamento.

[Tradisce un attimo di emozione] Sì, quasi vent’anni prima, erano gli inizi di settembre del 1935. Mio padre subì un intervento chirurgico all’ernia e prima di entrare in sala operatoria volle redigere un testamento spirituale in forma di lettera alla moglie. La consegnò a mio zio Pietro chiedendogli di consegnarla a mia madre solo dopo la sua morte. Mio zio la conservò a lungo tra le sue carte, gliela diede quasi venti anni dopo. Ho riletto quello scritto in tempo recenti e mi ha fatto lo stesso effetto di allora. Racconta molto bene quanto Alcide De Gasperi abbia amato la famiglia e abbia creduto in Nostro Signore. È un bellissimo testamento che risale al periodo fascista, ma avrebbe potuto essere scritto anche l’ultimo giorno della sua vita.

All’epoca lei aveva appena trent’anni e quel giorno iniziò la sua vita senza di lui.

Fino a quel momento ero stata assolutamente dipendente da mio padre, e tale era stata la mia dedizione a lui, alla sua politica e al suo lavoro che davanti a me non vedevo più alcuna prospettiva. Non andavamo sempre d’accordo ma mi aveva insegnato così tante cose, a cominciare dal suo modo di essere. La sua perdita fu per me un dolore immenso al punto che, pur avendo già una bella famiglia, un marito che mi voleva bene e due bambini piccoli da crescere, mi sentii terribilmente sola e disperata. L’unico modo per fare fronte a questo dolore fu quello di iniziare a scrivere di lui, a rimettere ordine tra la gigantesca mole dei suoi scritti. Cominciai a raccogliere tutto, a partire dalle ultime parole che aveva pronunciato. E cominciai a scrivere, pensando che qualcuno avrebbe poi potuto utilizzare quei miei appunti. Invece con il trascorrere del tempo mi resi conto che stavo scrivendo per me. Ma quel lavoro mi aiutò a superare le mie angosce. Pubblicai il primo volume con Mondadori. Fu un libro molto impegnativo perché mi ero prefissa di scrivere tutto su di lui, dalla sua nascita alla sua giovinezza, dalla sua attività di deputato in Austria a quella in Italia, e poi la prigione e il lavoro in Vaticano, infine il Dopoguerra. Mi portò via alcuni anni di lavoro. Ciò che ovviamente mi preoccupava più di tutto era la precisione e l’attendibilità di quello che scrivevo. Non volevo assolutamente che ci fossero errori o imprecisioni.

Ho pubblicato quello che ho ritenuto potesse essere interessante per chi voleva conoscerlo da ogni punto di vista. Mio padre non era un uomo comune, era dotato di una coscienza e di una dirittura morale straordinaria, tanto che nessun avversario politico ha mai trovato qualcosa di negativo sulla sua vita tale da poterlo compromettere o colpire. Qualcuno lo ha combattuto sul piano politico ma mai sul piano personale. La sua è stata una vita esemplare, e chi lo ha conosciuto davvero l’ha amato. Allora si parlava nelle piazze e il popolo era solito trasmettere il proprio sostegno e il proprio affetto di persona. E mio padre era sempre pronto a dare una risposta a tutti, anche a chi lo criticava.

© Archivio Della Porta
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Dopo la sua morte la DC le propose di candidarsi e lei accettò. Poi si verificarono alcune situazioni che la indussero a rinunciare.

Inizialmente mi proposero di candidarmi in Sicilia, poi da Roma dissero che invece sarebbe stato meglio se mi fossi presentata nel Lazio. Lì c’era da sempre l’onorevole Giulio Andreotti, il quale mi disse gentilmente: «Se vuole, le prime volte può venire con me quando tengo uno dei miei discorsi». Io lo seguii in più occasioni in alcune località del Lazio. Ma accadeva sempre che quando entravamo nelle sale o arrivavamo nelle piazze, invece che «viva Andreotti!» la gente gridava «viva De Gasperi!». Non acclamava me ovviamente, ma la mia presenza riportava inevitabilmente alla memoria della gente il ricordo di mio padre. Ciò creava un po’ di imbarazzo, forse non proprio di preoccupazione, ma un certo disagio sì, allo stesso Andreotti. Dopodiché sia lui che il partito mi chiesero di buttar giù un programma da accompagnare alla mia candidatura e io nella mia inesperienza – ma direi anche nella mia innocenza politica – provai a farlo. In fondo pensai che avevo pur sempre ascoltato mio padre per decenni. Ma, a quanto mi fecero capire, le cose che avevo buttato giù non corrispondevano a ciò che il partito era intenzionato a fare. Mi accorsi che avevano cambiato certe idee di un tempo. Essendo sempre stata una fanatica di mio padre, mi ero preparata una serie di punti che assomigliavano in tutto e per tutto alle sue idee, e forse questo dette fastidio a qualcuno. Il mio programma, che ricalcava le idee di mio padre, non coincideva più con la politica di Fanfani e della Democrazia Cristiana di allora. Mi resi conto che il partito non mi aveva aperto la strada come avrei voluto, che le loro idee erano cambiate; e questo chiuse di fatto la strada a una mia possibile carriera politica. Aspettai che arrivasse un aiuto personale da parte di chi mi aveva presentato, cioè dello stesso Andreotti, ma questo aiuto non arrivò mai. E io rimasi sola. Ricordo bene la sera in cui dovevano essere dati i nomi dei futuri deputati da eleggere e dovetti decidere da sola di farmi da parte. Capii che alla DC di allora non andavo bene e che stava nascendo qualcosa di diverso da ciò che il partito era stato fino alla prima metà degli anni ‘50. Qualcosa in cui io non mi riconoscevo più. Dichiarai quindi alla radio che ritiravo la mia candidatura. Credo fosse il 1958.

Si è mai pentita di quella decisione?

No. Anzi, a posteriori sono stata contenta di aver deciso di non candidarmi perché ebbi la sensazione – e il tempo me ne fornì ulteriore conferma – che il partito non fosse realmente intenzionato a portare avanti le idee di mio padre. Tempo dopo mi chiesero anche se volevo candidarmi al Parlamento europeo ma la proposta arrivò solo da una corrente del partito, e anche in quel caso decisi di declinare l’offerta, poiché non mi sembrava opportuna. Decisi allora di dedicarmi soltanto alla scrittura delle sue memorie e alla conservazione dei suoi archivi.

Conosciamo la grandezza e la statura morale di Alcide De Gasperi ma sappiamo molto meno di sua madre. Che donna era Francesca Romani e qual è stato il suo rapporto con lei?

Mia madre apparteneva a una famiglia trentina benestante, originaria di Borgo Valsugana, che all’epoca era sotto la dominazione austriaca. Mio nonno, cioè suo padre, era un commerciante ed era riuscito a mandare le figlie a studiare all’estero, una cosa tutt’altro che comune per l’epoca. Mia mamma andò prima in un collegio in Germania e poi in Inghilterra. Fu costretta a tornare al paese quando morì mio nonno. Conosceva l’inglese, il francese ed era brava con i numeri, tanto che curava la parte economica dell’attività di suo padre.

I miei genitori si erano incontrati ai tempi della Prima guerra mondiale, quando mia madre era crocerossina volontaria a Genova e mio padre era sfollato con la famiglia da Borgo Valsugana. Lui era molto più vecchio di lei e faceva già l’università a Vienna insieme al fratello maggiore di mia madre. Mamma era una donna intelligente e colta, pronta per un uomo capace come mio padre. Portò avanti il suo impegno nella Croce Rossa per tutta la vita, fino a diventare presidente del comitato nazionale femminile. Si sposarono nel 1922, lei era molto più giovane di mio padre, aveva ben dodici anni meno di lui, e gli è sempre rimasta accanto sostenendolo in tutti i momenti difficili della sua vita, sia quando andò in prigione, sia quando si rifugiò in Vaticano durante la guerra. Sempre con grande discrezione. Nelle fotografie la vediamo sempre un passo indietro rispetto a mio padre.

Proprio di recente sua sorella Paola ha scritto un libro che racconta il rapporto tra suo padre e sua madre attraverso il loro carteggio epistolare. Le “lettere dalla prigione” di Alcide De Gasperi sono note da tempo, il ritrovamento delle lettere di sua madre è una novità di questi ultimi anni. Cosa ci rivelano di nuovo del loro rapporto e com’è andata questa scoperta?

Le ho trovate all’interno di un pacco avvolto in fogli di carta di giornale che mia madre mi lasciò prima di morire. Inizialmente avevo pensato che non contenesse niente di importante e me n’ero quasi dimenticata. Invece quando l’aprii ci ho trovato le lettere che aveva scritto a mio padre per confortarlo e incoraggiarlo quando si trovava in prigione. Erano poche, in gran parte le aveva distrutte temendo che venissero scoperte. Mi è dispiaciuto molto non averle potute usare prima, nei libri che ho scritto su mio padre. Allora ho deciso di darle a mia sorella Paola, che le ha usate molto bene per questo libro. Rappresentano un inedito sentimentale che ha anche un valore storico.

Dopo tutti questi anni lei parla ancora con suo padre?

[Ride] Se ci parlo? Si giri e guardi cosa c’è lì, appeso sulla parete del mio studio. È un ritratto bellissimo di Attilio Mola, datato 1954, per il quale lui non aveva posato. Anni fa ci dissero che in una mostra a Milano era stato messo in esposizione questo quadro. Mio marito andò di corsa a vederlo, mi disse che era bellissimo e l’abbiamo acquistato. L’autore è morto alcuni anni fa, il suo è l’unico ritratto che secondo me ci restituisce Alcide De Gasperi proprio com’era, con i suoi occhi azzurri, con quel suo viso sereno anche se pieno di pensieri. Era nell’ultimo periodo della sua vita, non era ancora vecchio ma era stanco, perché aveva avuto una vita abbastanza difficile.

Possiamo dire che ancora oggi continua a confrontarsi con la sua eredità umana, politica e intellettuale?

Guardi, dopo tanti anni riesco ancora a stupirmi di fronte alla profondità dei suoi pensieri, alla sua fede in certi valori, alla sua sicurezza. Più leggo le cose che mio padre ha fatto e scritto fin da giovane e più mi convinco che sia stato spinto da una spiritualità e da una religiosità enorme. Non aveva altro desiderio che quello di portare le idee cristiane nella politica, era del tutto privo di altri fini, non gli è importato niente di primeggiare. Credo che questo sia difficile se non sei una specie di “santo”, o perlomeno una persona dalle grandi virtù. In politica è facilissimo cadere nella vanità e ci sono talmente tante pressioni e tentazioni che per rifiutarle tutte è necessario essere profondamente retti e onesti.

[Poi Maria Romana De Gasperi smette di parlare, si ferma un attimo e apre un cassetto della sua scrivania, mostrandoci un libro dove ha raccolto una serie di piccoli foglietti]

Vede, questi li lasciava sempre in mezzo alle sue carte. Erano richieste che faceva al Signore, lo supplicava di aiutarlo nei momenti difficili. Di solito li scriveva in italiano o in latino. Per esempio, questo: «Accetta O Signore le preghiere e le offerte della tua Chiesa». Erano frasi, citazioni e preghiere che scriveva di getto, le ricordava tutte perché aveva una memoria straordinaria. Li buttava giù su carta intestata della Presidenza del Consiglio, o di qualche ministero, che trovava lì di fronte a sé. Questo voleva dire essere un cristiano ed essere profondamente diverso da tutti gli altri. Ora mi dica lei quale politico, oggi, può fare una cosa del genere. Queste carte le ho conservate con cura, ma non le ho ancora pubblicate in alcuna forma perché ritengo che dovrebbero essere accompagnate dal commento di un religioso, di un sacerdote, per essere comprese e valorizzate appieno.

Come mai Alcide De Gasperi è ancora tanto presente nell’immaginario collettivo e politico del nostro Paese?

Forse perché, soprattutto fra le giovani generazioni, si sente nuovamente con forza il richiamo a una politica di convinzioni profonde. C’è la necessità di rivalutare quei principi di onestà e dirittura morale che il Dopoguerra ci aveva quasi imposto per tirarci su dal dramma del conflitto. I potenti, quale che sia il loro potere, dovrebbero tendere una mano al mondo dei giovani e valutare un loro possibile apporto alla cosa pubblica che necessita di nuovo coraggio per un futuro che cambia rapidamente sotto i nostri occhi. Credo sia utile e necessario rileggere Alcide De Gasperi per tornare a distinguere ciò che è lecito da ciò che non lo è, per credere ancora una volta che la politica deve essere una scelta di vita destinata al bene comune. Le parole che mio padre pronunciò in uno dei suoi ultimi giorni furono: «Adesso ho fatto tutto ciò che era in mio potere, la mia coscienza è in pace». Sarebbe bello se potessi dire lo stesso di tutti noi.

Nel 1982 lei volle dar vita alla Fondazione De Gasperi per promuovere i valori politici e umani portati avanti da suo padre, la centralità della persona umana, la difesa della democrazia, l’integrazione europea e l’attenzione alle nuove generazioni. Proprie a queste ultime dovrebbe spettare la sfida della modernità in un mondo globalizzato. Eppure, oggi i giovani sembrano sempre meno interessati alla politica. Perché?

Credo che sia la politica a essersi impoverita. Oggi non è più capace di darci alcun entusiasmo, alcuna ragione di vita. Allora invece c’era, eccome. E pensare che anche oggi di ragioni ce ne sarebbero, forse addirittura più di una volta. Noi europei siamo popoli ricchi di conoscenze, di storia. Messi assieme, potremmo essere qualcosa di meraviglioso. Oggi non abbiamo più le frontiere, almeno per ora, ma tutto quello che ci scambiamo è così difficile ed è sempre contrattato con altre cose. Per questo di entusiasmo in giro ne vedo ben poco. Siamo diventati sempre meno capaci di apprezzare le persone giuste, buone, vere.

Come ha vissuto quelle riforme che hanno cambiato il volto della società italiana negli anni ‘70, come il divorzio e l’aborto?

Personalmente ritengo si debba accettare il voto popolare e le decisioni che sono espressione della maggioranza degli italiani. Se la gente desidera certi cambiamenti significa che è ciò che va fatto. Ritengo che sia inutile mettersi a fare delle lotte contro l’espressione della volontà popolare. E penso che tutto il resto sia una questione personale. Quei due referendum non ci hanno impedito di formare famiglie unite, di volersi bene e di fare figli. Se ci crediamo possiamo mantenere il nostro modo di vivere senza obbligare gli altri ad agire diversamente.

Lei e suo marito avete avuto tre figli.

Sì. Il primo, quello che nacque a Torino il giorno dell’attentato a Togliatti, lo chiamammo Giorgio, come il fratello di mio marito che fu ucciso dai fascisti. Giorgio Catti era stato un partigiano cattolico. Durante la Resistenza si era nascosto in un casolare con un compagno, in Piemonte. I fascisti li circondarono e diedero fuoco al loro rifugio, uccidendoli. Mio figlio Giorgio, invece, è morto tanto tempo fa in un incidente di moto, in Francia. Aveva soltanto diciotto anni, era un bravo ragazzo, molto serio e studioso. Il mio secondogenito, Paolo, nacque nel 1950 e mio padre ha avuto la gioia di poter tenere in braccio un nipote che portava il nome del suo santo preferito. Ma purtroppo non ebbe il tempo di vederlo crescere perché era già anziano e molto malato. Gli sarebbe piaciuto tanto avere un ragazzo che potesse seguirlo anche nel suo percorso politico. Il mio terzo figlio è Maurizio: quello lì nella foto sulla scrivania, rosso di capelli. Ho avuto il grande dolore di perdere anche lui, nel 2014, a causa di una malattia contratta in Africa, dove lavorava per dare un futuro agli ex bambini soldato. Ricordo di averlo visto in lacrime, un giorno. Diceva che se avesse avuto più soldi avrebbe potuto salvarne di più. Purtroppo quella malattia non gli è stata diagnosticata dalla gente del posto e quando è tornato in Italia non c’era quasi più niente da fare. Una mattina lo trovai addormentato per l’eternità. Era un bravissimo ragazzo, diverso dall’altro, molto altruista, sempre desideroso di donarsi agli altri, pieno di amici e di persone che gli volevano bene.

Mi è rimasto il secondo, Paolo, che ha avuto tre figli e adesso è nonno.

Perché, secondo lei, in Italia è così difficile raggiungere una vera emancipazione femminile nel mondo del lavoro?

Non lo so, non riesco a rispondere a una domanda come questa. Io ho vissuto in un periodo nel quale le mie coetanee non erano solite andare in ufficio. Io ci andavo soltanto perché lavoravo per mio padre. I mariti delle mie amiche non volevano, non lo ritenevano necessario e talvolta lo consideravano anche sconveniente. L’educazione che avevamo ricevuto allora era difficile che ci regalasse quella voglia di libertà personale e di iniziative personali, che per averle bisogna essere solidi e sicuri di sé. Adesso abbiamo tantissime donne capaci e molto in gamba e potrebbero benissimo governare un paese anche da sole, se fosse necessario.

Anche lei, proprio come sua madre, ha lavorato a lungo per la Croce Rossa. Negli anni ‘80 le capitò di imbattersi nei primi malati di Aids all’ospedale Spallanzani di Roma.

Sì, in vari luoghi, tra cui l’ospedale Spallanzani, avevo organizzato un gruppo di volontarie. La struttura versava in condizioni a dir poco desolanti, era rimasto più o meno come dopo la guerra, alcuni reparti avevano persino le finestre rotte ed erano tremendamente disorganizzati. Al suo interno c’era un reparto dov’erano ricoverati gli uomini che avevano contratto l’Aids. All’epoca non si sapeva ancora granché su come la malattia poteva essere trasmessa, non si sapeva se il contagio poteva avvenire addirittura con il semplice contatto o con il respiro. Cercavamo quindi di non toccarli tanto. Al tempo non c’erano medicine, né cure adeguate e la nostra fu quindi una carità fatta soltanto di parole, di atteggiamenti, di presenza. Portavamo in corsia chili di caramelle Rossana, che quei poveri malati apprezzavano molto. Erano tutti giovani uomini in fin di vita, destinati a una morte rapida e dolorosa. Fu un periodo molto difficile, a volte uscivo da lì con le mie volontarie e chiedevo loro di non parlare con nessuno di ciò che avevamo visto. Trascorsi i primi anni le cose iniziarono gradualmente a migliorare, anche perché la malattia cominciò a essere più conosciuta e aumentarono le possibilità di cura.

Lei scrive da tanti anni su Avvenire, il quotidiano della conferenza episcopale italiana. Su quelle pagine ha spiegato i Vangeli ai lettori e poi ha iniziato a intrattenere una rubrica settimanale di riflessioni profonde sulla nostra contemporaneità.

Anni fa mi chiesero di spiegare il Vangelo della domenica. Poi mi proposero di raccontare aneddoti della vita di mio padre, ma dopo un po’ ho smesso perché la vita di mio padre l’avevo già raccontata nei libri biografici che ho scritto su di lui. Infine mi hanno concesso una libertà assoluta e posso scrivere quello che voglio, ma negli ultimi anni ho iniziato a trattare temi sempre meno politici.

Adesso l’umanità intera si trova ad affrontare un’altra grave malattia. Crede che questo virus potrà insegnato qualcosa all’umanità e magari guarire un po’ l’uomo dall’egoismo?

Dobbiamo chiederci senz’altro come sarà il mondo quando saremo usciti da questa fase così drammatica. Dobbiamo chiederci se continueremo con i soprusi e la prepotenza dimenticandoci che un piccolo virus ci ha costretto a cambiare all’improvviso quasi tutte le nostre abitudini. Dobbiamo chiederci quale esempio di solidarietà sapremo diffondere e cosa avremo imparato da ciò che anticamente abbiamo attribuito all’ira degli dei. Credo che forse sia necessario individuare una strada nuova, più vicina al bene comune e alla giustizia sociale. Essere uguali di fronte al dolore, alla pena, alla paura forse dovrebbe farci vedere con una nuova fraternità chi ha meno, chi non ha nessuno che lo attenda a casa dopo la guarigione. Spero fortemente che, alla fine di tutto, l’egoismo abbia perso un po’ della sua forza di fronte a un male che ha toccato tutti.

Ritiene che la pandemia cambierà per sempre le nostre vite, i nostri affetti e il nostro rapporto con gli altri?

Ne sono profondamente convinta, perché questi mesi terribili hanno rappresentato una scuola dura, che ci ha messo tutti alla prova, che in molti casi ci ha costretti a gettare la maschera. Molte persone che vivevano vicine, magari sullo stesso pianerottolo di casa, e magari prima si salutavano a malapena hanno imparato il valore dell’umanità e della condivisione delle sofferenze. Forse se c’è qualcosa di positivo che possiamo trarre da questa esperienza, è la comprensione dell’altro e il bisogno di aiutarci reciprocamente. Questo male terribile ci lascerà almeno questo. E sarà un’eredità preziosa.

(Il testo dell’intervista qui riportato è stato raccolto da Riccardo Michelucci durante i due incontri con la signora Maria Romana De Gasperi, avvenuti a distanza di tempo l’uno dall’altro a causa del Covid-19, il primo nel novembre del 2019 e il secondo il 3 maggio del 2021).

© Archivio Della Porta
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