L’impero romano e la crisi dei rifugiati (370–410 d.C.)

Perché cadde l’Impero Romano? Questa domanda ha tormentato la civiltà europea per tutta la sua storia, accompagnata (in modo talvolta esplicito, talvolta sottinteso) dalla riflessione sulle conseguenze che quell’evento lontano ha sul presente. Impressionati dai resti monumentali di Roma e formati sulla sua eredità immateriale, abbiamo guardato con ammirazione alle sue conquiste economiche, tecnologiche e culturali: e ci siamo chiesti quale sarebbe stata l’evoluzione della civiltà occidentale, qualora il crollo dell’Impero non avesse modificato le condizioni di vita individuali e ridimensionato drasticamente la complessità delle forme di organizzazione sociale. Generazioni di intellettuali hanno ricercato le motivazioni più “vere” e profonde di tale cesura. Come è potuto accadere che una delle più estese e durature formazioni statali della storia, che aveva garantito per secoli pace e prosperità al mondo mediterraneo, quella che uno dei suoi più illustri cittadini, il filosofo Plutarco di Cheronea, definì “la più bella delle creazioni umane”, con la solidità del suo apparato amministrativo e militare, la sua cultura raffinata, le sue conoscenze tecnologiche, la sua vita sociale ed economica altamente specializzata e regolata da un coerente sistema di leggi, sia crollata per opera di barbari semicivilizzati e poco organizzati? Per la civiltà europea, che di Roma si considera erede e continuatrice, questa domanda cela un interrogativo ben più inquietante: come evitare che accada di nuovo?

Nel suo libro La caduta di Roma (Der Fall Roms. Die Auflösung des römischen Reiches im Urteil der Nachwelt), pubblicato nel 1984, lo storico tedesco Alexander Demandt dedicò ben 150 pagine ad elencare e classificare tutte le cause fino ad allora proposte per spiegare questo fenomeno epocale: dall’ascesa del Cristianesimo alle tensioni tra classi sociali, dall’esaurimento delle risorse naturali al malfunzionamento della macchina statale. Sullo sfondo, tuttavia, la divergenza fondamentale tra gli studiosi ha riguardato il ruolo che in tale processo ebbero le invasioni barbariche: si trattò di un fenomeno incidentale, che giunse a dare, per così dire, il colpo di grazia ad una struttura statale che aveva già raggiunto il limite? Oppure questa sequenza di eventi traumatici fu la causa diretta che portò al collasso delle istituzioni statali e dell’amministrazione territoriale, e quindi al crollo dell’Impero? Nel 1947 lo storico francese André Piganiol, nella conclusione del suo libro L’impero cristiano (L’empire chrétien), impugnò con decisione le teorie che consideravano la caduta di Roma come conseguenza di fattori interni, affermando che l’Impero era un organismo forte e vitale, la cui fine fu provocata soltanto dalle sempre più frequenti e rovinose incursioni dei barbari. Famose sono le ultime parole del libro: “La civiltà romana non è morta per cause naturali. È stata assassinata”. Ma la tesi di Piganiol lascia irrisolta la questione principale: per secoli i Romani erano riusciti ad arginare le popolazioni barbariche e ad integrarle più o meno pacificamente nel sistema statale, grazie ad una combinazione di iniziative diplomatiche, controllo delle politiche migratorie, apertura agli scambi commerciali, dimostrazioni di supremazia militare. Per quali motivi nel IV secolo tale equilibrio si ruppe, e Roma non fu più in grado di far fronte alla pressione sui suoi confini?

Il fenomeno migratorio nell’antica Roma è stato studiato da Alessandro Barbero in un libro del 2006, intitolato Barbari: immigrati, profughi, deportati nell’Impero Romano. Barbero ha mostrato che l’immigrazione fu un fenomeno di lungo periodo, strettamente legato all’espansione dell’Impero e alla stabilizzazione del suo controllo territoriale. C’era ovviamente un’importante quota di immigrazione interna, che faceva affluire nella capitale e nelle città più ricche molti provinciali, attirati dalle maggiori opportunità economiche e dalla possibilità di ascesa sociale; ma c’era anche un’immigrazione dall’esterno, attraverso le migliaia di chilometri di frontiere terrestri che separavano le province di Roma dal territorio controllato da altre entità statali, dalle tribù germaniche dell’Europa centrale, a quelle berbere del Sahara, all’impero dei Parti, poi dei Persiani a Oriente. Queste frontiere rappresentavano un limite estremamente permeabile, spesso più simbolico che tangibile (con alcune eccezioni, quali il Vallo di Adriano in Britannia), intorno al quale si svilupparono vere e proprie società di confine, fondate sugli scambi commerciali tra interno ed esterno e sullo sfruttamento di forza lavoro barbarica. La situazione nella maggior parte di queste aree fu stabilizzata in età augustea o giulio-claudia, allorché popolazioni tutto sommato simili per lingua, costumi e tradizioni si trovarono attraversate e divise dal limite del controllo territoriale romano: quanti avevano accettato (più o meno volontariamente) la sovranità imperiale furono avviati verso una crescente urbanizzazione e romanizzazione, mentre le popolazioni rimaste al di fuori conservarono i loro costumi e le loro forme di organizzazione statale, sempre sotto l’egida della sovranità imperiale. Se infatti la differenza tra interno ed esterno dell’Impero era ben percepibile a livello amministrativo e fiscale, l’ideale universalistico sotteso all’espansione romana faceva sì che l’autorità del principe si rivolgesse in teoria all’umanità intera: l’imperatore era responsabile del benessere di quanti collaboravano alla costruzione del bene comune, e della punizione di quanti cercavano di perturbarlo – fossero o meno inclusi nell’organizzazione territoriale delle province di Roma.

Questa situazione si mantenne più o meno stabile per circa due secoli: solo durante il principato di Marco Aurelio, negli ultimi decenni del II secolo, si creò una situazione nuova nella gestione dei confini, provocata da due fattori, uno esterno e uno interno all’Impero. Il primo è rappresentato dall’instabilità geopolitica nell’Europa centro-orientale: in questo periodo si assistette infatti all’espansione dei Marcomanni, che aspiravano a costruirsi un’egemonia sulle tribù germaniche circostanti; se molte di queste andarono ad ingrossare le fila marcomanne, numerose altre, scacciate con la violenza o emigrate volontariamente dalle loro sedi, si diressero verso le province di Roma con intenzioni più o meno ostili. Durante i quindici anni di guerre sul fronte danubiano, l’autorità imperiale utilizzò alternativamente gli strumenti dell’accoglienza e della deportazione, da un lato consentendo a limitati gruppi di barbari di insediarsi pacificamente in territorio romano, dall’altro rastrellando i superstiti di tribù sconfitte e conducendoli prigionieri all’interno dell’Impero, dove vennero insediati in aree spopolate allo scopo di risollevarne con il loro lavoro la situazione economica e demografica. Ciò avvenne in conseguenza del secondo dei fattori cui si faceva cenno: la cosiddetta “peste antonina”, una devastante epidemia, probabilmente di vaiolo, che durò diversi anni e la cui diffusione fu facilitata proprio dagli spostamenti di grandi masse di soldati per le guerre sul fronte danubiano. L’accoglienza di profughi e l’insediamento forzoso di deportati rispondevano al tracollo demografico provocato dalla pestilenza in alcune regioni. Il ripopolamento di tali aree mediante l’affidamento di terre a popolazioni barbare, per quanto potenzialmente pericoloso (sono documentati alcuni casi di ribellione), era comunque una soluzione migliore rispetto alla mancata gestione del territorio: la principale esigenza dell’autorità imperiale era infatti quella di evitare che vaste estensioni di terreno, rimaste senza coltivatori, divenissero improduttive dal punto di vista agricolo e fiscale.

Dopo un ventennio di relativa stabilità, la spinta delle popolazioni barbariche sui confini riprese con ancora maggior vigore e non si allentò per tutto il III secolo. Tale continua pressione mise a dura prova la tenuta istituzionale dell’Impero, che attraversò in questo periodo la più grave crisi della sua storia. Ma la successione convulsa degli imperatori, le continue guerre civili, le devastazioni provocate dalle scorrerie barbariche non cambiarono la politica romana verso le popolazioni che intendevano stanziarsi nel territorio dell’Impero: l’opposizione militare ai gruppi che mostravano atteggiamenti ostili si accompagnò sempre allo sforzo di integrare quanti erano disposti ad insediarsi pacificamente. Tale integrazione era ottenuta soprattutto attraverso l’esercito, nel quale vennero inquadrati sempre più barbari per rimpinguare gli organici dissanguati dalle continue guerre. Il reclutamento di barbari non rappresentava una novità, poiché molti di essi appartenevano a popolazioni guerriere ben addestrate nel combattimento: ma l’accresciuta importanza, in questo periodo, dell’elemento militare permise ora a tali reclute di raggiungere posizioni inaspettate. Nel 235, Gaio Giulio Massimino fu il primo principe di origini barbariche, acclamato imperatore dai soldati al culmine di una brillante carriera militare. Non sappiamo come egli percepisse la propria identità etnica, ma le sue origini non gli impedirono di difendere energicamente gli interessi di Roma e l’integrità del territorio imperiale contro Alamanni e Sarmati. Ma tali sforzi non bastarono. Nel periodo più buio della crisi, intorno alla metà del III secolo, i Romani non furono più in grado di negoziare da posizioni dominanti: nel 251 Decio fu il primo imperatore a cadere in battaglia, nel tentativo di respingere un’incursione dei Goti; nel 260 Valeriano venne preso prigioniero dai Persiani, un’onta che ebbe pesanti ripercussioni sul morale dell’esercito e di tutti i Romani.

Proprio dalle province balcaniche, maggiormente devastate dalle incursioni e in cui anche l’insediamento barbarico pacifico era stato più massiccio, provenivano i principi della fine del III secolo, che seppero restituire all’Impero l’integrità territoriale e la stabilità dei confini. Al termine di questa ripresa, nel 301, nella prefazione al celebre Editto dei prezzi, l’imperatore Diocleziano e i suoi colleghi potevano legittimamente rivendicare di aver portato a compimento la pacificazione delle frontiere: “Ora che la situazione mondiale è tranquilla e mantenuta nell’alveo della più profonda quiete, possiamo rendere grazie dinanzi agli dei immortali ripensando alle guerre che abbiamo vittoriosamente combattuto […] noi, che grazie al benigno favore dei numi abbiamo posto fine ai saccheggi delle tribù barbare, che da tempo imperversavano, mediante la distruzione di quegli stessi popoli”. Che i barbari fossero stati completamente distrutti, naturalmente, non era vero: ma non si può negare che, dopo il periodo più critico, l’Impero avesse ritrovato la sua stabilità e l’egemonia sulle nazioni circostanti, almeno in Europa e in Africa (in Asia la situazione era più complessa, vista la presenza del ben organizzato e sempre aggressivo stato persiano). Nel IV secolo, Roma negoziava nuovamente da una posizione di forza, portando avanti la tradizionale politica di intervento militare contro i popoli più aggressivi, e di accoglienza pacifica dei profughi e degli esuli. C’era però una differenza importante dal punto di vista dell’integrazione degli immigrati. Fino alla metà del III secolo, i barbari reclutati nell’esercito venivano normalmente integrati nell’organico delle legioni e posti sotto il comando di ufficiali romani. Le cose cambiarono con la decisione dell’imperatore Gallieno di sottrarre ai senatori il monopolio dei posti di comando, affidandoli a militari di carriera. Tale provvedimento aumentò considerevolmente la mobilità sociale all’interno dell’esercito: grazie al valore individuale, ogni recluta, anche di origine barbara, poteva ora aspirare a posizioni di comando, e nei casi più fortunati perfino al titolo imperiale. Quella che nel caso di Massimino era stata una precoce eccezione divenne un modello sempre più frequente a partire dagli ultimi decenni del III secolo.

Una volta superata la crisi, l’Impero visse nel IV secolo una situazione di rinnovata stabilità, in cui il recupero di una relativa sicurezza nelle province di confine si accompagnò ad una decisa accelerazione nel processo di integrazione delle popolazioni barbare. Ma nella seconda metà del IV secolo qualcosa in questo sistema si deteriorò: la causa scatenante fu l’arrivo di una nuova ondata di rifugiati, i cui numeri imponenti crearono notevoli difficoltà all’apparato amministrativo romano, sia locale che centrale. La gestione disastrosa dell’accoglienza provocò non solo il fallimento delle politiche di integrazione, ma addirittura il rifiuto, da parte dei gruppi immigrati, di riconoscere l’autorità statale e le leggi: nel giro di poco tempo, Roma dovette fare i conti con un gruppo organizzato e armato di stranieri, sottratti a qualsiasi controllo, che si spostavano liberamente da una parte all’altra del territorio imperiale sostentandosi tramite il saccheggio e l’occupazione abusiva di terre. Messa di fronte al disastro, la società romana si interrogò sulle sue cause: i resoconti e le riflessioni degli autori contemporanei, in particolare gli storiografi Ammiano ed Eunapio, meritano di essere analizzati nel dettaglio, per capire come un processo di accoglienza e di integrazione, iniziato con le migliori intenzioni, si sia trasformato in una minaccia persistente per Roma. Il racconto che da qui si dispiega è ben poco edificante, fatto di errori di valutazione, falle gestionali e organizzative, reazioni inadeguate o sproporzionate. Capire tali eventi è un’operazione sicuramente interessante: e può rivelarsi un utile ammonimento, per evitare di dover affrontare conseguenze analoghe.

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